Opinioni & Commenti

L’inganno di improvvisate proposte di riforma costituzionale

di Ugo De Siervo

Non sono rassicuranti le numerose e vivaci polemiche sorte in conseguenza del recente voto negativo della Camera dei deputati su un disegno di legge di riforma della Costituzione che avrebbe voluto eliminare ogni riferimento alle Province come enti locali necessari. Anzi, esse confermano il clima non poco confuso e dominato da polemiche eccessive, se non strumentali, nel quale si svolge faticosamente il confronto fra le forze politiche su temi delicati come quelli dell’ordinamento e delle funzioni degli enti locali.

Intanto va detto che con l’esistenza delle Province non c’entra nulla il problema della riduzione della spesa pubblica, dal momento che è assolutamente inimmaginabile che la eventuale scomparsa di un ente pubblico possa far venir meno anche le funzioni pubbliche (con le relative spese) che gli erano state affidate e che dovrebbero essere, invece, attribuite ad altri enti pubblici, vecchi o nuovi. Certo, verrebbe meno la spesa (peraltro, assai limitata) relativa agli organi elettivi delle Province, ma questa situazione spingerebbe ben presto o a creare nuovi enti intermedi fra Comuni e Regioni, con relativi organi e costi, o ad attribuire le funzioni alla Regione, con evidenti processi di accentramento rispetto al momento attuale.

Cerchiamo di essere chiari: fin tanto che in Italia vi saranno – come al momento attuale – oltre ottomila Comuni, tra loro diversissimi per consistenza demografica (oltre seimila Comuni con meno di cinquemila abitanti ed appena 14 con più di duecentocinquantamila abitanti), sembra evidente che le popolazioni locali debbano essere rappresentate da organismi intermedi fra il reticolo frammentato ed eterogeneo dei Comuni e le Regioni, altrimenti spinte a governare liberamente l’intero territorio regionale. Voglio dire che o ci si rassegna ad avere un sistema regionale di tipo sostanzialmente accentrato, salva la sola forza interdittiva dei grandi Comuni, o bisogna disporre di enti rappresentativi delle popolazioni locali, che riescano a gestire gli interessi di area vasta (e cioè eccedenti la dimensione comunale ma inferiore a quella regionale). Ciò può voler dire riformare anche in modo radicale le Province, magari modificandone anche gli organi rappresentativi e di governo e riducendone la fittizia contrapposizione con il sistema dei Comuni, ma senza pretendere di ridurre tutte le novità alla mera eliminazione di questi antichi enti locali (che, bene o male, operano da quando esiste il nostro Stato unitario). Ma allora proporre genericamente di abolire le Province, sia nei programmi elettorali che in improvvisate proposte di riforma costituzionale, senza avanzare contemporaneamente un diverso modello di amministrazione locale (responsabilità che spetta sia allo Stato che alle Regioni), appartiene alla cattiva politica, che tende ad eccitare strumentalmente l’opinione pubblica contro la cosiddetta «casta», senza porsi seriamente il problema di trasformare in meglio l’amministrazione locale, riducendo al tempo stesso sprechi e privilegi degli amministratori (che non mancano certo). E l’inganno è tanto più evidente se si riflette che molti degli attuali severi critici contro l’esistenza delle Province sono gli stessi parlamentari che negli ultimi venti anni ne hanno aumentato in modo abnorme il numero (da poco più di novanta a centodieci).