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L’Iraq ha bisogno dei cristiani

di Daniele Rocchi

Da tempo in Iraq la minoranza cristiana è «sotto tiro», costretta a lasciare città come Baghdad e Mosul per trovare rifugio nel nord del Paese o all’estero. Le notizie di rapimenti, anche di sacerdoti, tasse sulla protezione, conversioni forzate e uccisioni preoccupano sempre più la Chiesa caldea che si trova a dover fronteggiare questa «emergenza persecuzione» come continui sono gli appelli alla pace, alla riconciliazione, al rispetto dei diritti di Benedetto XVI. Ne abbiamo parlato con l’ambasciatore della Repubblica d’Iraq presso la Santa Sede, il cristiano Albert Edward Ismail Yelda, una laurea in letteratura antica e una specializzazione in diritti umani internazionali. Dal 1987 al 2003 si è dedicato alla consulenza legale e a progetti di assistenza per immigrati iracheni a Londra. «Faccio parte – ci dice – di questa antica e fragile comunità e, in veste di ambasciatore dell’Iraq, condanno profondamente tutte le atrocità commesse contro i cristiani dell’Iraq e contro altre venerabili minoranze, atrocità che hanno assunto varie forme, pulizie etniche, minacce, persecuzioni e uccisioni da parte di gruppi radicali ed estremisti collegati e aiutati dai sostenitori del vecchio regime. Con queste azioni compiute nel nome dell’Islam, e l’Islam come religione è ben distante da queste, cercano di creare il caos per minare l’operato e gli sforzi del nuovo governo nella lotta al terrorismo, all’estremismo e al radicalismo religioso».

C’è spazio per i cristiani nel nuovo Iraq?

«I cristiani d’Iraq sono i semi della terra di Mesopotamia, l’attuale Iraq, e non credo che esista una forza su questa terra che possa sradicare tali semi dalla loro terra avita. Posso garantire che rivestono e rivestiranno un ruolo positivo e importante nello sforzo di costruzione di uno Stato iracheno pacifico, secolare, pluralista, democratico e federale. I cristiani d’Iraq hanno sofferto enormemente durante il periodo dell’ex regime, e specialmente a causa delle politiche scioviniste di arabizzazione attuate dall’ideologia del partito socialista del Baath Arab».

C’è rischio che si crei un’enclave cristiana nella piana di Ninive a nord del Paese?

«Non esiste un piano per una zona separata per i cristiani; non è questo ciò che vuole la maggior parte dei cristiani in Iraq. I cristiani (assiri, caldei, compresi i siriaci e gli armeni) sono sparsi in tutto l’Iraq e hanno vissuto fianco a fianco con i musulmani (sciiti e sunniti), gli arabi, i curdi e i turcomanni oltre ad altri gruppi e minoranze religiose e hanno condiviso con loro il bene e il male, la felicità e la tristezza, periodi ed eventi tragici e piacevoli».

Quali sono le preoccupazioni della Santa Sede?

«La Santa Sede è molto preoccupata della situazione di tutto il popolo iracheno e segue con particolare interesse la situazione della comunità cristiana. Già Giovanni Paolo II e ora Benedetto XVI, hanno spiegato di avere molto a cuore gli iracheni, indipendentemente dalla loro religione. In molte delle mie udienze speciali con il Papa, Sua Santità ha affermato che, specialmente durante questi tragici eventi in Iraq, egli ha continuato a pregare per la pace, per la stabilità e prosperità di tutti gli iracheni».

È d’accordo con diversi analisti, che la priorità per l’Iraq attuale è la sicurezza?

«Credo che la sicurezza sia in questo momento la questione più importante ed essenziale. Per avere un Iraq sicuro, dobbiamo avere una forza di sicurezza affidabile e potente, che garantisca la protezione dei confini, impedendo ai terroristi di entrare in Iraq e uccidere civili innocenti e creare scompiglio terrorizzando gli iracheni. È essenziale che la comunità internazionale fornisca aiuti più concreti al governo iracheno oltre ad attrezzare bene le nostre forze di sicurezza con i mezzi più recenti e potenti per impedire agli elementi oscuri, compresi i terroristi, di mettere in pratica i loro piani malvagi e distruggere la vita del popolo iracheno. Sono convinto che le forze multinazionali in Iraq, comprese le unità statunitensi, debbano coordinare le proprie operazioni, non importa se politiche o militari, con il nostro governo e che, prima di qualsiasi azione, il nostro governo dovrebbe essere accuratamente informato».

Nei media l’Iraq fa notizia per le violenze e attentati. Ma c’è anche qualcosa che merita di essere conosciuto?

«Nell’Iraq di oggi, abbiamo la libertà di parola, di opinione, di assemblea, di manifestare, di creare opposizione politica, tutti diritti che non esistevano nel regime di Saddam. I salari degli iracheni sono enormemente aumentati, esiste un mercato economico libero in cui quasi tutto è disponibile nei negozi e nei supermercati; sono stati eliminati gli ostacoli che impedivano agli iracheni di viaggiare. Ci sono centinaia di quotidiani e canali satellitari liberi e senza limitazioni, che rappresentano tutti gli strati della società».

Si sta muovendo qualcosa nei rapporti con il vicino Iran?

«L’Iran è un vicino molto importante, con forti legami culturali, sociali e religiosi con la maggior parte della società irachena, per cui ritengo che le relazioni con il nostro vicino debbano essere il più normali e stabili possibili, basate su politiche di reciproco rispetto e di non interferenza negli affari interni. Un Iraq stabile e pacifico gioverà alla stabilità e alla pacifica convivenza di tutti i Paesi del Medio Oriente e contribuirà a promuovere il processo di pace, specialmente tra gli Stati arabi, gli islamici e lo Stato di Israele».