Opinioni & Commenti

L’Italia in Europa senza posti e senza alleati

Il generale Rommel diceva che non si deve combattere una battaglia se non si ottiene nulla dalla vittoria. Ed anche chi ha vinto in Italia le elezioni europee con la promessa di rivoltare l’Europa come un calzino ora non sembra proprio in grado di mettere le mansarde di Bruxelles in cantina. A indebolire il governo italiano nella sua prova di forza con l’Unione Europea sono prima di tutto i risultati quasi tutti negativi di un anno di governo gialloverde.

Nel 2018 la nostra crescita era dello 0,9 e oggi è dello 0,1. Il deficit pubblico era del 2,1% e oggi è del 2,5. Il debito pubblico era del 133,2% e oggi è del 133,7. La disoccupazione era al 10,9% e oggi è all’11%. I tassi di interesse sul debito erano di poco superiori all’1% e oggi sono intorno al 2,5%. Soprattutto l’Italia è praticamente a zero per quanto riguarda la crescita mentre la zona euro cresce in media dell’1,2% e mentre hanno ricominciato a crescere anche tutti gli altri paesi colpiti dalla crisi. Non solo Irlanda, Spagna e Portogallo, ma perfino la disgraziatissima Grecia.

Nel frattempo la commissione di Bruxelles ha aperto una procedura di infrazione contro il nostro paese che potrebbe costarci una multa di 3,5 miliardi mentre l’agenzia di rating Moody’s ha già promesso di rivedere ai primi di settembre il rating dei nostri titoli di stato con una prospettiva terrificante. Moody’s infatti ha già ridotto nell’ottobre scorso il nostro rating a Baa3, cioè a un livello al di sotto del quale ci sono solo i titoli spazzatura che banche, assicurazioni e fondi pensione sono tenuti a non comprare.

Pur con la perdita di voti di popolari e socialisti, ma grazie al successo dei verdi e dei liberali, gli europeisti più convinti hanno ancora una forte maggioranza al parlamento di Strasburgo. Al contrario il fronte sovranista si è già spezzato. L’inglese Farage e l’ungherese Orban non vogliono saperne dell’alleanza con Salvini a cui rimane solo l’appoggio di Marine Le Pen. E all’interno della nuova maggioranza dentro l’Unione che sarà formata da popolari, socialisti, verdi e liberali si sta trattando delle cariche senza fare nessun nome italiano, anche se il nostro governo mira ad ottenere il commissario all’Economia, che è un premio difficile da ottenere da parte di chi ha i conti peggiori e una procedura di infrazione in corso. Gli italiani dovranno lasciare tre cariche importanti: quella di gran lunga la più pesante di Mario Draghi alla Banca Centrale Europea, poi quella di Antonio Tajani a presidente del Parlamento europeo e infine quella di Federica Mogherini come rappresentante della politica estera. In passato, come Paese fondatore della comunità, l’Italia ha strappato per due volte anche la carica massima di presidente della Commissione Europea prima con Franco Maria Malfatti e poi con Romano Prodi e comunque ha avuto sempre un commissario a cominciare dal mitico Altiero Spinelli per poi proseguire con Mario Monti, Emma Bonino e Franco Frattini.

E l’Italia rischia di rimanere senza posti e senza alleati mentre si avvicinano scadenze per noi decisive. Fra queste a novembre c’è la successione a quel Mario Draghi che, decidendo nel 2012 di far acquistare titoli di stato dalla Bce, ha troncato il nostro spread che volava ad oltre cinquecento punti e in pratica ha salvato l’Italia. Il più probabile successore di Draghi sembra essere oggi Jens Weidmann, cioè la peggiore candidatura per noi perché si tratta del presidente della Bundesbank che si è sempre opposto all’acquisto di debiti sovrani da parte della Bce e che oggi è il principale portavoce degli interessi dei banchieri tedeschi che con la scelta di Draghi hanno visto ridurre a zero i loro profitti sui prestiti. Inoltre nel prossimo anno la Commissione si prepara a mettere in campo due provvedimenti che riguardano molto da vicino il nostro Paese. Il primo è una diversa distribuzione dei 145 miliardi di fondi europei di cui quasi la metà dedicata alla politica agricola comune e il secondo è l’aumento della spesa per i migranti da 13 a 35 miliardi di euro. In ambedue questi ambiti gli interessi italiani sono forti e in conflitto con i cosiddetti paesi sovranisti (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca) che oggi sono i principali beneficiari dei fondi europei e che non ne vogliono sapere dell’assistenza ai migranti oltre che essere forse i paesi più intolleranti nei confronti della nostra spesa pubblica.

Nel complesso il governo gialloverde, contrapponendosi a tutte le forze europeiste, ha perso l’occasione di giocare politicamente e diplomaticamente anche nel campo. Non abbiamo potuto e voluto inserirci, per esempio, nel veto che Macron ha messo a Manfred Weber, il candidato della Merkel alla presidenza della Commissione europea, e nel sostegno ad un personaggio come la danese Margrethe Vestager che, come commissario alla Concorrenza, ha fatto sul serio e ha condotto una battaglia durissima a suon di multe salate contro le multinazionali che evadono alla grande. Abbiamo evitato ogni contatto con i verdi che sono i veri vincitori di queste elezioni europee e che, oltre alle loro tradizionali battaglie ecologiste, chiedono ora anche un Europa «più sociale».

E non siamo andati a vedere che cosa veramente bolle in pentola anche nel campo socialdemocratico dove il nuovo leader Frans Timmermans chiede ad esempio un salario minimo europeo, imposte armonizzate all’interno dell’Unione, e il pagamento del mantenimento dei migranti anche da parte di chi non vuole accoglierli. Tutte proposte tutt’altro che inconciliabili con quelle che sono le grandi e particolari esigenze non solo europee, ma particolarmente italiane.