Lettere in redazione

L’uscita di Profumo sull’ora di religione

Qualcuno ha interpretato la singolare proposta del ministro Profumo di sostituire l’insegnamento della religione cattolica con quello di storia delle religioni, come un modo di farsi pubblicità e assicurarsi un futuro politico in qualche formazione politica marcatamente laicista e anticlericale. Come potrebbe altrimenti, il suddetto Ministro, dimenticare che la nostra cultura è fondata sulle radici giudaiche-cristiane? Come potrebbero i nostri giovani comprendere la «Divina commedia» o l’arte d’ispirazione religiosa senza conoscere il cristianesimo? Lo hanno perfino capito non pochi studenti provenienti da culture, religioni e paesi diversi, che hanno scelto volontariamente l’ora di religione cattolica che, si badi bene, non è una lezione di catechismo bensi una esposizione dei contentuti di questa religione, presente nel nostro paese e in Europa da 2.000 anni.

 

Jacopo Cabildoindirizzo email

Può un «ministro tecnico», alla fine del suo mandato, cambiare l’«ora di religione», che è stabilita da apposite Intese? Ovviamente no e lo sa bene lo stesso ministro, che si è lasciato scappare quelle frasi in libertà ad una festa di partito (Sel), forse per ingraziarsi la platea. Tanto è vero che ha fatto prontamente retromarcia, diffondendo all’Ansa il testo di una sua lettera al filosofo cattolico Giovanni Reale, che lo aveva criticato. In quella lettera Profumo ha definito «interpretazioni fantasiose» le notizie secondo cui una bozza di riforma preparata dal Miur sarebbe già stata inviata al Consiglio di Stato, e ha cercato di precisare meglio il suo pensiero: «Il nostro Paese è al centro di un Mediterraneo in tumultuosa evoluzione politica e spirituale, da sempre crocevia di fedi e popoli, che da qualche tempo cerca un diverso equilibrio tra di esse e tra di essi. (…) Conoscere questo nuovo mondo, e cercare di capirne i processi di trasformazione mi sembra essenziale per i nuovi italiani tanto quanto saper far di conto, saper scrivere nella nostra bellissima lingua, conoscerne una straniera ed avere una cultura civica e costituzionale pronta per la cittadinanza. A questo penso – e non certo a cambiare norme o patti, tantomeno a fine legislatura – quando rifletto ad alta voce su come l’Italia e dunque la scuola italiana possa fare i conti con questa mutata realtà».

Fin qui il ministro e francamente mi sembra una tempesta in un bicchier d’acqua. Certo, avrebbe fatto meglio ad esser più cauto, perché quando parla pubblicamente impegna il governo. Ma si sa che quando ci si siede su certe poltrone la tentazione di strafare è sempre in agguato. Piuttosto quello che preoccupa è il coro di approvazione che da tante parti (politici, opinionisti, giornali) si è levato in favore di una «riforma» radicale dell’ora di religione. Non che questo tema debba essere un tabu. Se si può fare di meglio, cambiamola pure. Metterla in concorrenza con l’«ora del nulla» o meglio con l’uscita anticipata dalle lezioni, – ad esempio – non è una cosa seria. Ma chi ha lodato l’uscita del ministro non intendeva questo. Non pensava a «migliorarla». Piuttosto a ridimensionarla o a stravolgerla. Come ha ricordato venerdì scorso il segretario della Cei, mons. Mariano Crociata, rispondendo in proposito ai giornalisti, «l’insegnamento della religione cattolica non è una forma di indottrinamento cattolico, ma un mezzo culturale, scolastico, pienamente inserito all’interno delle finalità della scuola, per insegnare e imparare la storia e la cultura di un Paese». Proprio in riferimento alle preoccupazioni del ministro, il Segretario della Cei ha parlato della necessità di imparare la lingua del Paese, oltre che la propria di origine, quando si arriva in una nazione che non è quella di nascita: «Imparare la cultura italiana con il cattolicesimo, che la definisce strutturalmente, è un servizio, un aiuto nel rispetto delle identità altrui». E ricordando che proprio pochi mesi fa il ministro Profumo ha firmato delle nuove Intese con la Conferenza episcopale italiana, ha ribadito che «la Chiesa non ha interesse ad abbassare la qualità dell’insegnamento, ma anzi a dargli la qualità più alta, alla pari di ogni altra disciplina scolastica».

Claudio Turrini