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Magistratura, l’esigenza etica di una onestà mentale assoluta

La differenza, stavolta, è una parola sporca scritta su un fascicolo d’accusa, «corruzione»: si indaga su un magistrato, Luca Palamara, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, ex componente del Consiglio superiore della magistratura, ora in servizio alla Procura di Roma, che secondo l’accusa avrebbe ricevuto denaro e regali per pilotare la nomina di un collega a capo della Procura di Gela. Senza riuscirvi. Lui dice che non è vero, che è innocente. E noi fortemente ci auguriamo che sia così, per noi stessi prima che per lui, perché se il marcio dei favori compravenduti fosse arrivato anche lì, cadono le braccia. Per fortuna non è mercato che tocchi l’attività giudiziaria, ci mancherebbe; tocca l’ambizione delle carriere personali, qualcosa che ha del miserabile, ma porta a conseguenze rilevanti.

Qualche nozione minima sugli istituti è necessaria. La magistratura è un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. I giudici sono soggetti soltanto alla legge. Non è un privilegio loro, è una esigenza nostra, una garanzia totale che ci è dovuta. Per questo il loro reclutamento, l’assegnazione alla sede, le funzioni, il trasferimento, la carriera, il potere disciplinare, sono affidati a un organo specifico, il Csm, eletto per due terzi dagli stessi magistrati e per un terzo dal Parlamento. Gli elettori possono avere diversi orientamenti e fin qui passi. Patologico invece è il concetto di un Consiglio diviso in fazioni, inclini ciascuna a favorire i propri sodali e a ostacolare gli «avversari»; patologico e incoerente è che vi siano faccendieri dediti al «traffico d’influenza» per pilotare le decisioni del Consiglio.

È pur vero che i tentativi, i contatti, i conciliaboli riguardano problemi di nomina a uffici direttivi, scegliendo fra vari candidati aspiranti alla carriera; e che in Italia sponsorizzare gli amici nell’arrampicata è costume diffuso anche in altri settori, almeno così si dice. Ma le nomine dei magistrati, specie di quelli del pubblico ministero, sono delicatissime: sappiamo che c’è fra loro, o ci può essere, chi tende a «sopire» e chi vuol fare il grande Inquisitore. Ci vuole equilibrio. L’esercizio dell’azione penale non è cosa che possa contaminarsi con nessun’altra intenzione se non il dovere.

Ci vuole allora purezza totale nell’esame, nella verifica, nella scelta; fuori dagli schemi d’ambizione, contese, invidie, personalismi; fuori dai traffici d’influenza, ammiccamenti, favori. Allora la reazione indignata che ci ha colto, e che ha mosso il Capo dello Stato a parole durissime («C’è da chiedersi come l’intreccio di affari e collusioni e interessi, tanto lontano della finalità istituzionali dell’organo di autogoverno sia potuto emergere…») non può fermarsi all’episodio Palamara. Deve dilatarsi a recuperare l’esigenza etica di una onestà mentale assoluta, quale il fuoco della giustizia esige dalle sue vestali. E se invece che di cedimenti individuali ci si accorge che si tratta di fragilità sistemiche, ebbene si cambi il sistema. Del Csm, e di tutto il resto che occorre, e forse anche un poco di noi.