Seconda puntata del nostro percorso sul futuro. Il futuro compare invece con un piccolo popolo apparentemente di scarsa importanza: Israele. Nell’Antico Testamento il testo fondamentale è Daniele 12,2 e soprattutto 2 Maccabei 7. I fedeli uccisi in odio alla loro fede confidano di riavere non semplicemente la vita terrena, ma «una vita nuova, eterna». Nel NT Gesù porta a compimento queste promesse e — in un certo senso — realizza quanto non era riuscito a Gilgamesh e Orfeo.Scende negli inferi (dopo essere “sceso” sulla Terra con l’incarnazione) per amore degli uomini e li porta fuori dal regno della morte, dopo averne scardinate le porte. Le rappresentazioni bizantine di un Gesù che quasi strattona i morti afferrandoli saldamente per il braccio ci fanno comprendere la distanza da Orfeo che tiene esitante la mano di Euridice, con un amore sincero ma inadeguato alloscopo. Non solo la terra, ma anche i cieli si sono squarciati.È nato il futuro — che forse meglio si chiamerebbe qui avvenire, poiché si tratta di un dono di un Dio che porta nella sua stessa “ragione sociale”, nel suo nome sapore di futuro: «Io sono colui che sarò/ Colui che viene». Un avvenire che è sulla soglia del “già” e del “non ancora”.In Europa l’avvenire è diventato a poco a poco futuro, secolarizzandosi e affidando di volta in volta a realtà diverse il ruolo di “messia”: la scienza, la rivoluzione, l’economia. A fine Ottocento sino alla Grande Guerra il futuro è la conquista progressiva e inarrestabile del controllo sul mondo e sull’uomo stesso. La politica garantisce il trionfo del “sol dell’avvenire”, Freud assicura il prosciugamento delle forze inconsce fuori controllo. Da noi il poeta ufficiale Carducci compita: «Il mondo è bello, e santo l’avvenir» . L’ultimo atto del tentativo di pensare al futuro senza trascendenza è forse quello di Camus: «La vera generosità verso il futuro consiste nel donare tutto al presente […]. Il futuro è la sola trascendenza degli uomini senza Dio».