Toscana
Marco e la malattia: “Cercate luce dove sembra non esserci”
La storia di un giovane abruzzese di 22 anni in cura all’ospedale Meyer di Firenze

«Circondatevi di persone buone, cercate luce dove sembra non esserci». È l’invito di Marco, un giovane abruzzese di 22 anni in cura all’ospedale Meyer di Firenze. Viene da Lanciano, in provincia di Chieti, studia Economia all’università di Teramo. «La mia vita – racconta – era tranquilla, fatta di studio, amici, sport, fino a quando è arrivata una diagnosi che ha cambiato tutto».
Quando è iniziato il tuo percorso di cura a Firenze?
«Sono arrivato a Firenze il 20 dicembre 2023. Quel giorno sono stato operato e da lì è cominciato tutto. Dopo qualche giorno, precisamente la vigilia di Natale, sono tornato a casa in ambulanza per affrontare il decorso post-operatorio: cinque settimane con il gesso. Pensavo fosse finita lì, ma non era così».
Cos’è successo dopo?
«A fine gennaio 2024 sono tornato a Firenze per togliere il gesso e lì mi hanno comunicato che il tumore rimosso aveva caratteristiche più aggressive rispetto a quanto sembrava all’inizio. È stato un colpo. Mi hanno detto che dovevo fare un nuovo ciclo di cure: 18 cicli di chemioterapia, che ho iniziato a febbraio. L’ho terminato solo pochi mesi fa. Un percorso lungo, difficile, ma necessario».
Durante tutto questo sei riuscito a portare avanti anche l’università?
«Sì, ho cercato di non fermarmi del tutto. Fino a giugno 2023 avevo completato il primo anno. A settembre avevo iniziato il secondo, ma l’operazione è arrivata proprio nel periodo degli esami, quindi non ho potuto sostenerli. Però ho deciso di non mollare: ho continuato a studiare e grazie alla modalità online sono riuscito a dare qualche esame tra gennaio e marzo. Il mio obiettivo è recuperare l’anno accademico perso e tornare a frequentare in presenza da ottobre. Voglio laurearmi a luglio 2026».
Com’è stato vivere così a lungo lontano da casa?
«È stato molto complicato. Sono rimasto a Firenze con mia madre per mesi. È stato difficile soprattutto a livello emotivo: lasciare casa, gli amici, le abitudini. Ma mi ha anche insegnato tanto. Ho imparato a cavarmela, a essere più autonomo. In reparto ho conosciuto tanti ragazzi con storie simili alla mia. Alcuni ce l’hanno fatta, altri hanno ancora da combattere. È un’esperienza che ti cambia nel profondo».
Hai detto che non era la prima volta che affrontavi una malattia così…
«Esatto. Nell’estate del 2021 avevo già affrontato un tumore. Anche allora avevo fatto la chemio, ma la situazione era diversa. Stavolta è stato tutto più lungo, più duro, più pesante. Però, paradossalmente, anche più formativo. Quest’esperienza mi ha insegnato che nulla è scontato, nemmeno il semplice camminare o alzarsi dal letto senza dolore».
Come sei riuscito a mantenere il morale durante le cure?
«Non sempre ci sono riuscito, sinceramente. I primi cicli di chemio erano molto pesanti. Però, man mano che passava il tempo, la situazione migliorava. Ho iniziato a vedere piccoli segnali di ripresa. E poi ho sempre cercato di avere uno sguardo positivo, di non mollare. Non è facile, ma serve».
Cosa ti ha aiutato di più, umanamente, durante questo periodo?
«Il sostegno di mia madre, prima di tutto. Lei è stata sempre con me. Poi l’aiuto concreto della Fondazione Bacciotti, che ci ha dato alloggio a due minuti dall’ospedale. Un appartamento tranquillo, nel verde, che ci ha permesso di avere un piccolo angolo di normalità. Anche la Misericordia di Firenze ci ha aiutato moltissimo con i trasporti, e i volontari sono stati fantastici. E poi la presenza di don Fabio, le chiacchierate, le visite in ospedale, ci hanno dato forza».
La fede ti ha accompagnato?
«Sì, ma in modo personale, non forzato. Ho imparato che la fede non è fatta di frasi fatte o teorie, ma di incontri veri. Come quelli che abbiamo avuto noi. Non mi hai mai parlato “da prete”, ma da uomo. È quello di cui avevo bisogno. Nei momenti più bui, sapere che qualcuno ti pensa, ti viene a trovare, prega con te… è un sollievo».
Come hai vissuto il distacco dalle tue passioni?
«Il calcio è sempre stato una parte importantissima della mia vita. Tifo Milan da sempre, lo abbiamo nel sangue in famiglia. Purtroppo, dopo l’operazione al ginocchio e l’inserimento della protesi, non posso più giocare. Ma il calcio non l’ho abbandonato: continuo a seguirlo, e grazie alla Fiorentina ho avuto l’occasione di andare allo stadio. Ho visto due partite di Conference League e anche Fiorentina-Milan. È stata un’emozione fortissima. Per me, in quel periodo, quelle serate erano ossigeno puro».
Cosa ti ha lasciato quest’esperienza?
«Una nuova consapevolezza. Oggi guardo la vita con occhi diversi. Quando parlo con i miei coetanei e sento certi “problemi”, a volte mi viene da sorridere. Non per giudicare, ma perché so cosa significa avere davvero paura. Ho imparato che fallimento non è provare e non riuscire, ma smettere di provarci. Io non voglio smettere. Voglio vivere, imparare, crescere. Ho ancora tante cose da fare».
E il futuro? Come lo immagini?
«Nel breve, ho fisioterapia da fare per migliorare la mobilità della gamba. Non potrò più fare sport da contatto, ma camminare, andare in bici e nuotare sì. A settembre vorrei trasferirmi di nuovo a Teramo, prendere casa lì, riprendere la routine da studente. Laurearmi, trovare un lavoro, costruire la mia vita. So che nulla sarà scontato, ma forse è proprio questo il bello».
C’è un messaggio che vorresti lasciare ad altri ragazzi che stanno attraversando qualcosa di simile?
«Sì: non abbiate paura di chiedere aiuto. Non chiudetevi. Anche nei momenti più difficili, anche quando tutto sembra buio, c’è sempre un modo per andare avanti. Circondatevi di persone buone, cercate luce dove sembra non esserci. E ricordate: la malattia non vi definisce, non vi toglie il diritto a un futuro. Lottate per ciò che vi rende felici».