Prato

Mons. Agostinelli si presenta

Eccellenza, qual è il suo stato d’animo in questo tempo di attesa?

«Confesso che il mio è uno stato d’animo variamente connotato. Da una parte sono contento di questo cambiamento, anche perché capisco che dopo tanti anni – quasi 11 qui a Grosseto – il rischio è quello di diventare ripetitivi. Però vivo questo cambiamento ormai in corso con un certo magone, perché qui lascio una scia di affetti, di conoscenze, di legami. In queste settimane, successive alla pubblicazione della nomina, devo “sopportare” il rincrescimento di tanti sacerdoti che mi guardano quasi con atteggiamento di bonario… rimprovero. Però vengo a Prato anche contento, perché è anche occasione per rinnovarsi, per rimettersi in discussione. Vengo nella consapevolezza di andare in una Chiesa che, per quello che conosco è attiva, vivace, fatta di persone concrete: lo dice, del resto, la storia sociale ed ecclesiale della città».

Che cosa conosceva di Prato, della sua Chiesa e del suo territorio, prima di esserne eletto Vescovo?

«Non è che conoscessi molto di Prato, se non quello che ci è dato di conoscere nello scambio tra noi Vescovi durante le riunioni periodiche della Conferenza episcopale toscana. In questi incontri, preziosi sia per la fraternità tra noi, pastori delle Chiese locali, sia per per l’interscambio di notizie, di proposte, di problemi, si vengono a conoscere gli aspetti salienti delle altre diocesi. Quel che conoscevo di Prato lo devo a quanto ho ascoltato da mons. Simoni in quel contesto e agli incarichi che ho svolto e che svolgo: delegato regionale Caritas, prima, poi ora dei Migrantes e correttore nazionale delle Misericordie. Altre notizie le avevo anche tramite la fama di Prato e del suo territorio. Ricordo fin da ragazzo che molti da Arezzo partirono per trasferirsi a Prato. Di alcuni ho in mente i nomi. Se dovessi da questa conoscenza trarre un bilancio complessivo, direi che è positivo.

Lei è stato parroco di una grande – e allora nuova – comunità urbana, ad Arezzo, prima ancora di diventare Vicario generale e Vescovo. Quali ricordi conserva di quell’esperienza?

«Essere parroco al Sacro Cuore in piazza Giotto ad Arezzo è stata un’esperienza fondamentale della mia vita; anzi l’aver lasciato la parrocchia è stato il mio primo trauma. Arrivai in quella grande parrocchia (allora di 15mila abitanti) che avevo 27enne, con tutto l’ardore della giovinezza, fresco di studi. Lì ho avuto la fortuna di incontrare dei validissimi collaboratori, sia sacerdoti che laici, persone competenti, che volevano e vogliono bene alla Chiesa, e una schiera di giovani, con i quali abbiamo iniziato il cammino. Molti di questi oggi hanno acquisito un ruolo nella società. Al di là di quel poco o tanto che siamo riusciti a fare, ci è stato dato soprattutto di vivere un ambiente di profonda comunione con coloro che venivano in chiesa ma anche con quelli che in chiesa ci venivano poco o niente».

Come ne ha potuto far tesoro durante il ministero episcopale?

«Una convinzione mi ha sempre accompagnato da allora: la Chiesa è chiamata a essere riferimento per tutti, per chi crede, per chi non crede, per chi ha una ideologia, o per chi non ne ha. La Chiesa non è e non opera per dividere, ma per unire, per prendere tutti per mano. Essere Chiesa vuol dire servire: io non so se noi ne siamo convinti fino in fondo. Il Signore ci sceglie non perché siamo migliori degli altri, ma ci sceglie per servire e servire tutti, senza distinzioni. Sono convinto che la parrocchia sia stata il mio primo seminario, dove mi sono fatto prete davvero, nonostante gli anni del Seminario ad Arezzo e gli studi all’università a Roma. Quella del Sacro Cuore è stata un’esperienza che mi ha accompagnato dopo: sia come Vicario generale, sia come Vescovo. In questo senso mi considero un parroco “prestato” all’Episcopato».

Come pensa di impostare il rapporto con i suoi nuovi sacerdoti, la sua «famiglia»”, come l’ha chiamata?

«Io credo che il rapporto con i sacerdoti deve essere vero, leale, sincero, dialogante. I preti sono la famiglia del Vescovo: in famiglia si può essere d’accordo o meno, mica siamo tutti uguali, però siamo in famiglia. Un sacerdote me lo ha detto in questi giorni: “Quando son venuto da lei – mi ha raccontato – non sempre mi sono trovato d’accordo. Però quando uscivo dal Palazzo vescovile, sapevo che quello che avevamo deciso era anche la mia decisione”. Non sempre si può essere d’accordo, perché è normale avere idee diverse e poterci confrontare. Ma cosa chiedo ad un prete? Chiedo questa fraternità senza remore, senza paure, senza difese, e al fondo lealtà».

Al suo predecessore, che ha guidato la Chiesa di Prato in un ventennio cruciale di trasformazioni sociali, che cosa ha detto e che cosa dirà ancora?

«Dire che per don Gastone ho stima è un eufemismo. Don Gastone lo ritengo un maestro. Lo conosco da quando io ero giovane prete, e lui già Vicario generale a Fiesole. Ci siamo incontrati più volte: l’ho sempre ascoltato con molta attenzione e venerazione. Le parole del Vangelo per lui sono molto adeguate: “Servo buono e fedele”. Ci siamo incontrati, ci si incontrerà ancora. Il dialogo tra noi è un dialogo sereno e fraterno. Per me rimane un punto di riferimento e vorrei che continuasse ad accompagnarci, a essere nostro collaboratore. Sarà mia premura chiedergli di essere con noi nei momenti più importanti della vita diocesana».

Mons. Simoni ha voluto concludere il suo mandato episcopale, quasi per preparare la consegna della diocesi al suo successore, con un lungo tempo di missione diocesana concluso poi dalla Peregrinatio Mariae. «Uscire dal tempio» era uno dei motivi ricorrenti di quella stagione, come lo è del suo primo messaggio appena nominato vescovo di Prato. Una continuità nella diversità che in molti hanno notato. Come «uscire dal tempio», secondo il Vescovo Franco?

«È bella questa sintonia. Questo slogan l’ho detto fin dal primo giorno che sono venuto a Grosseto, il 3 febbraio 2002. La Chiesa non può rimanere chiusa in sacrestia, noi stiamo male in sacrestia. E stiamo male anche in chiesa, alla fin fine, se dovesse essere segno di un egoismo religioso che talora accompagna anche noi cattolici. Il Signore non ci ha mandato a fare le cerimonie: ci ha mandato al mondo, e il mondo oggi non lo troviamo più in chiesa, perché la nostra società ha acquistato una direzione diversa. Mentre prima tutto convergeva verso la chiesa, anche chi non credeva, oggi viviamo una direzione opposta. Per cui credo occorra uscire dal tempio, andare a trovare la gente laddove vive, opera, lotta, fa cultura, dove la gente vive in una parola, perché se l’aspettiamo in chiesa, non tornerà più. Il Signore dice: “andate in tutto il mondo” e noi ci limitiamo alle nostre quattro persone che vengono in chiesa? Gesù ha detto: “Ho altre pecore che non sono di questo ovile…” e lascia le novantanove per la pecorella smarrita. Ci rendiamo conto che oggi, oltretutto, si è invertita la proporzione della parabola? Bisognerà trovare tutte le opportunità pastorali, culturali e anche politiche per “uscire dal tempio”. Interessarsi alla vita della polis per noi non è un optional. Paolo VI diceva che la politica è la forma moderna della carità».

Nella polis per vivere tra la gente, dunque…

«Ne sono convinto: bisogna ritornare in mezzo alla gente, muti compagni di viaggio. Per tanto tempo abbiamo guardato alla gente pieni di pretese: buttiamo via le pretese, ascoltiamo! Magari diranno eresie, esprimeranno giudizi severi nei confronti della Chiesa: non importa, ne hanno il diritto. Noi siamo stati troppi pretensiosi nei confronti della nostra gente. Facciamo sì allora le nostre liturgie, nella maniera più bella e dignitosa, però non possono costituire l’esclusivo del nostro impegno».

Nella sua prima lettera ai pratesi ci ha messo in guardia dalla preoccupazione di «conservare il privilegio». Cosa intende esattamente?

«Abbiamo voluto il privilegio esclusivo della verità. La verità esiste, per noi è Cristo. Però c’è un cammino per raggiungerla. Non possiamo pretenderla subito. Se il Signore ha avuto pazienza con me, io non devo avere pazienza con gli altri, rispettare i loro tempi di crescita? Bisogna camminare con il passo degli ultimi, non di quelli che camminano speditamente, quelli ce la fanno benissimo. Il Signore dice che è venuto per i poveri e i peccatori. Se vogliamo essere fedele al Vangelo, ci dobbiamo mettere in fondo alla fila. Il Signore che ci chiede di non giudicare. Non sappiamo cosa sta dietro alla storia di tanta gente che sbaglia!».

Si è appena aperto l’Anno della fede. Qual è il senso di questo cammino voluto dal Santo Padre e come vorrebbe viverlo insieme ai suoi nuovi diocesani?

«Vorrei che questo anno che abbiamo davanti fosse sulla linea di quello che ha detto il Papa. Vuole essere l’anno in cui l’Europa dovrà ritrovarsi, ritrovare le sue radici. L’Anno della fede deve essere prima di tutto però un anno di conversione per noi, uno sguardo prioritario ad intra, interno alla Chiesa, e nella vita di ciascuno di noi. Possiamo fare tante iniziative, diventare prestigiosi nell’organizzazione, ma se non si ritrova la fede, tutto questo è vano. Convertirci vuol dire infatti dare l’orientamento giusto alla nostra vita. Non vuol dire essere perfetti, impeccabili, ma dare una direzione nuova, così da essere testimoni visibile e credibili per gli altri».

La Diocesi di Prato è – come anche lei notava nella sua lettera – ricca come poche altre di opere caritative, educative, formative e di comunicazione. In questo modo, anche nella Chiesa si è, nel tempo, espressa l’intraprendenza e la creatività dei pratesi. Ha avuto modo di conoscerne l’impegno?

«Ho avuto modo di visitare alcune opere nella mia visita privata del 3 ottobre scorso. Ma di molte avevo sentito parlare da tempo. Leggendo anche la relazione inviatami dalla Santa Sede, ho visto quale ricchezza di opere c’è a Prato. Del resto queste rivelano il carattere di una persona come di una comunità. Si manifestano così anche in questo ambito l’intraprendenza, la capacità, l’ingegno tipici dei pratesi».

Il nostro è un territorio tuttora tra i più ricchi, ma è sempre più segnato da una crisi economica di sistema, alla quale non sembra che i pratesi riescano a reagire con decisione. Cosa può dire un Pastore d’anime di fronte a questi cambiamenti epocali?

«Un Vescovo non può dare ricette o indicazioni di carattere tecnico: non gli competono. So che a monte di una impresa di carattere industriale o artigianale ci sono prima delle persone che pensano, che progettano. Io spero che i pratesi non perdano la speranza e l’ottimismo che li ha sempre caratterizzati. Mi aspetto di trovare ancora delle persone grintose, determinate, capaci di ricominciare. Io posso essere loro di incoraggiamento, di sprone. Penso anche alle tante persone che hanno perso il lavoro, rischiano di perderlo o di non trovarlo, come succede a tanti giovani. Noi cosa possiamo fare? Vorrei essere vicino a questa gente, prima di tutto a quelli che in questo momento stanno pagando il maggior prezzo: il mondo operaio e del lavoro dipendente. Il lavoro non è una componente marginale per la vita morale, per la vita sociale ma anche per la vita cristiana. Il lavoro fa la persona e la sua dignità. È importante stare vicino alla gente, essere di sprone alle istituzioni e alle categorie sociali, a coloro che possono fare qualcosa per il cambiamento, per poter dare risposte a un diritto che è scritto nella coscienza dell’uomo e nel diritto dei popoli».

Sempre nel suo messaggio ha fatto un riferimento agli imprenditori e al loro compito. Tra l’altro uno dei suoi primi atti pubblici sarà la proclamazione, nella solennità patronale, delle aziende vincitrici del premio Santo Stefano. Qual è il ruolo che devono svolgere in questo tempo di crisi?

«Se si parla di lavoro, non si può non parlare di chi il lavoro lo crea. Dobbiamo essere riconoscenti agli imprenditori, piccoli o grandi, perché se Prato ha conosciuto lunghe stagioni di benessere, si deve soprattutto a persone che hanno messo in gioco i loro talenti, la loro intraprendenza. In questi momenti di crisi, dico di avere il coraggio ancora di osare, di non fermarsi, di trovare forse anche altri sbocchi, altre strade, essere capofila di una ripresa, perché se non c’è una classe imprenditoriale che si fa capofila, la ripresa non credo che sarà vicina. Dobbiamo essere vicini a loro, sostenerli».

Lei è da tempo delegato per la pastorale dei migranti dei Vescovi toscani. Arriva in una città tra le più multietniche d’Italia. Cosa vuol dire a chi è venuto in Italia da terre lontane?

«Mi ricordo che uno dei miei Vescovi aretini diceva: “Verrà il tempo in cui noi dovremo pregare questa gente di venire da noi, perché ci saranno mestieri che gli italiani non vorranno fare più”. Fu profetico. Gli immigrati sono ormai un dato di fatto acquisito. Ingiustizie e povertà li spingono a lasciare le loro terre. Qua da noi molti mestieri non vengono più svolti dagli italiani. Abbiamo un dovere umanitario ma, dunque, anche un bisogno, un’esigenza di carattere sociale, nell’accoglierli. Ma l’accoglienza non può essere senza regole e deve essere reciproca: Noi dobbiamo capire la loro diversità, ma è chiaro che loro devono impegnarsi a conoscere e a rispettare la nostra cultura. Taluni vengono qua con l’illusione di trovare un ambiente che si adegua senza fatica alla loro mentalità, alle loro tradizioni: questo non è né possibile. Come Chiesa abbiamo poi il dovere di annunciare a tutti il Vangelo. L’impegno pastorale voluto da mons. Simoni in favore degli stranieri vorrei confermarlo e se possibile promuoverlo. Come Chiesa vorrei assicurare la nostra premura e attenzione verso gli immigrati, senza dimenticare il dovere e l’urgenza che ci spingono ad annunciare a tutti il Vangelo».