Italia

Mozambico, reportage da Beira

di Renato Bruschi

Beira è una città recente. Costruita dai portoghesi alla fine dell’Ottocento, vista dall’alto sembra un agglomerato di quartieri senza centro, con propaggini che si stendono dal mare alla savana. Eppure ha un ospedale con oltre 800 posti letto, diverse Università, un porto commerciale, è sede vescovile, è abitata da un numero imprecisato di persone – si parla di circa 300 mila, ma sono molte di più – che appartengono a razze diverse, dagli indiani ai bantu, è il capoluogo della regione di Sofàla, nel centro del Mozambico ed è la seconda città del Paese. Qui operano centinaia di europei, soprattutto italiani, tra religiosi, operatori delle Organizzazioni non Governative, missionari, medici, e volontari di ogni etichetta. La prima persona che incontriamo è una dottoressa che lavora con i «Medici con l’Africa CUAMM».

Si chiama Marina Trivelli è originaria di Massa, e lavora come chirurgo nell’ospedale regionale. Con lei ci inoltriamo alla scoperta della città. Ci farà da guida suor Dominique di Como, una religiosa della congregazione delle «Suore Orsoline del Sacro Cuore di Maria».

Il BairroLa prima tappa è il «Bairro», che letteralmente significa quartiere, ma qui indica la parte più povera della città, dove vivono migliaia di persone, cui manca tutto, tranne la dignità. Il «Bairro» è un groviglio di case, fatte con fango, stoppie, qualche volta sassi intrappolati tra legni, senza finestre e con piccole porte. Ognuna di esse non supera le dimensioni di una stanza, ma può ospitare da cinque a dieci persone. Non ci sono servizi igienici, le fogne a cielo aperto. I bambini giocano nel fango, in una miseria sconfinata. Solo la scuola rappresenta per loro una concreta possibilità di riscatto. Nonostante ciò sono allegri, giocano con un pezzo di legno o un sassolino. In mezzo a questa realtà, ai confini del mondo cittadino,  operano le «Suore Orsoline». Il loro impegno è finalizzato alla promozione della donna e al  miglioramento delle condizioni di vita dei bambini, attraverso i progetti di adozione a distanza e di sostegno.  Le suore sono anche inserite nell’Università Cattolica, oltre all’insegnamento si occupano delle attività sociali. Gli studenti che usufruiscono di borse di studio devono farsi carico di una famiglia del «Bairro», come segno di corresponsabilità e condivisione. Suor Dominique ci accompagna all’interno del quartiere. Con lei si è sicuri. È conosciuta, amata e apprezzata. Si muove agilmente attraverso quei passaggi polverosi, e pieni di sporcizia. I bambini appena la scorgono, le corrono incontro, vogliono la sua mano e le donne la ringraziano. Qui è d’obbligo salutare con cortesia, augurare buon giorno o buon pomeriggio e chiedere qualcosa della vita. La religiosa ci racconta delle difficoltà delle donne, soprattutto quando  il marito scopre che sono sieropositive e vengono abbandonate al loro destino. Nel «Bairro» segue diversi progetti di accoglienza. Ma guai a parlarle di carità: «ognuno deve trovare in se stesso le forze per reagire – ci dice – noi diamo un aiuto, un mezzo, per ricominciare, ma il grosso del lavoro lo devono fare loro». Mentre stiamo uscendo uno sciame di bambini ci affronta sventolando quaderni nuovi di zecca: sono appena usciti dalla scuola pomeridiana e gridano di gioia. Vogliono farsi fotografare e prima di andartene gli devi mostrare la foto scattata. Quando vedono se stessi in miniatura, ridono e ti ringraziano con un «obrigado». Salutiamo suor Dominique ed andiamo ad un mercatino di periferia, dove spiccano i colori accesi della frutta, e delle stoffe. «Ciunga moio»: è questo il nome e significa «cuore contrito». Che c’entra il cuore col mercato? Indica lo stato d’animo di chi entra tra quei varchi: è contrito perché le cose costano talmente poco che spende tutto quello che ha, oppure perché quando esce fuori qualcuno gli ha rubato il portafoglio. Corriamo su una grande strada costruita dagli italiani: è l’unica con un asfalto compatto, che resiste all’usura, a differenza di quelle messe in piedi dai cinesi, che si sfaldano subito, lasciando lunghe crepe e profondi squarci nel manto stradale. A scuola di missioneTra le foreste di Mangunde, sorge la missione dei comboniani. In origine alcune strutture le avevano realizzate i francescani che però, durante la guerra civile, le hanno abbandonate. Sono state trasformate in una scuola parificata e un «Centro di salute» (una sorta di ambulatorio con sala parto e zona ricovero) dove tra alunni e malati, ogni giorno, vi fanno riferimento oltre mille persone. I ragazzi studiano nelle scuole che vanno dalle nostre elementari fino al liceo. Da poco è stata aperta anche una sezione «agraria». La particolarità è che gli allievi sono impegnati nell’autogestione della struttura: preparano, a turno, da mangiare per il gruppo, accudiscono agli animali, impastano il pane, puliscono le camerate e studiano. I professori, che vivono in case di mattone, sono pagati dal governo. All’interno della scuola i padri e le suore comboniane, si occupano della formazione umana. La religione non è imposta a nessuno: chi lo desidera può partecipare il sabato pomeriggio al catechismo e ricevere il battesimo. Gli altri sono aiutati a crescere con lezioni di «educazione civica». Nel «Centro della salute» arrivano donne e uomini per farsi visitare e per incontrare un dottore. Assai radicata è ancora nella cultura mozambicana, l’idea che alcune malattie siano dovute agli spiriti maligni e che quindi la persona più adatta a risolvere il problema è il «curandero», una sorta di «santone» e non il medico. Tuttavia da qualche anno i «centri della salute» hanno registrato un incremento di presenze, – sottolinea il direttore sanitario -  a significare che si è accresciuta la fiducia nei confronti della medicina. L’Università e l’ospedaleL’Università Cattolica è il fiore all’occhiello dell’istruzione superiore della città. La seconda in ordine di tempo, dopo quella inaugurata dai portoghesi a Maputo, riceve gli studenti delle regioni del Nord e del Centro. Offre diversi percorsi di studi e lo scorso hanno si sono laureati ben ventotto medici e tredici nel 2007. Vice rettore e amministratore generale è padre Fancesco Ponzi, un missionario della Consolata. Ci illustra il metodo del «Problem based learning» (PBL) che qui è ampiamente praticato: l’insegnante fa da moderatore, ma sono i ragazzi a costruire il proprio bagaglio culturale attraverso un percorso seminariale, dove viene individuato e approfondito un problema specifico, e le possibili soluzioni vengono comunicate all’intera classe. L’ospedale invece, assai modesto rispetto a quelli europei, ma abbastanza all’avanguardia per l’Africa, ha un bacino di utenza di oltre sette milioni di persone. A differenza di altre strutture sanitarie è possibile incontrare medici specialisti. La dottoressa Trivelli, accompagnandoci all’interno, racconta che il 33% della popolazione è affetta dall’HIV, e che anche i morsi dei serpenti velenosi, sono una delle cause più frequenti di ricovero ospedaliero. Bambini, giovani e adulti vi arrivano con gli arti necrotizzati a causa del veleno, e a quel punto, l’unica soluzione è l’amputazione.

Nell’ospedale, a quattro piani, l’ascensore è fuori uso ed è facile immaginare i disagi. Tuttavia il nosocomio, sebbene ospiti malati terminali, e offra scenari di dolore, non trasmette un senso di disperazione e di ineluttabilità come è facile trovare in alcune strutture europee.

Assistenza e formazione: medici in trincea

Medici con l’Africa CUAMM» in Mozambico lavora in due regioni Sofàla e Nampula. Nella provincia di Sofala è presente a Beira e nei «centri di salute» dei vari distretti. Gli operatori del CUAMM seguono due progetti: Ospedale e Università, e un progetto in collaborazione con l’Unicef nei vari distretti provinciali. Il progetto che riguarda l’ospedale impegna tre medici che operano nei dipartimenti di chirurgia, medicina e ostetricia e ginecologia. Il loro scopo è di migliorare i reparti, fare formazione ai medici e agli infermieri e accogliere gli studenti di medicina che stanno seguendo il tirocinio. Coloro che sono inseriti nel «progetto Università» si occupano, invece,  esclusivamente della formazione degli studenti sia negli anni di studi teorici, che nel biennio di specializzazione. Il «progetto unicef», si incarna nel territorio e riguarda i bambini a rischio, cioè quelli mal nutriti, con l’HIV e con altri problemi. In tutta la regione di Sofàla sono ben cinquanta i centri seguiti nel 2008. Qui si insegna agli operatori sanitari a riconoscere le malattie a rischio e ad intervenire tempestivamente. La dottoressa Trivelli è responsabile del «progetto Ospedale» e, dal punto di vista medico, di tutta l’attività portata avanti dal CUAMM, della provincia.

Una Chiesa giovane aperta al futuro

Ogni anno in Mozambico, come in altre parti dell’Africa, i cristiani aumentano di numero. A Beira durante la veglia pasquale, nelle diverse chiese della città, centinaia e centinaia di persone tra adulti, giovani e ragazzi, ricevono il battesimo e diventano parte viva della grande famiglia della Chiesa. Abbiamo chiesto ad alcuni di loro di raccontare la propria storia.

STORIA DI TITO. Nel cuore dell’Africa troviamo un giovane italiano del Veneto. Laureato in scienza dell’interculturalità a Trieste . Tito è arrivato in Mozambico nel novembre 2006 per seguire il progetto «Esmabama» di Padre Ottorino Poletto, un Comboniano che ha fondato alcune scuole e collegi per persone del «mato» – così vengono chiamate le aree sperdute dell’interno del Paese –. Tito si dichiarava agnostico, figlio di una famiglia di agnostici, con un vago senso di Dio e contrari alla Chiesa. «Venendo qua – ci racconta – ho finalmente trovato un Comboniano che davvero spende la propria vita per gli altri, con uno spirito cristiano diverso da quello che si respira in Italia. Ha avuto modo, di parlare a lungo con padre Ottorino e ho capito che il battesimo è il dono dello Spirito Santo ricevuto in nome di Dio e non di un uomo. Per questo desidero diventare cristiano». Tito cosa ti sentiresti di dire a un tuo coetaneo che vive in Italia la cui fede è diventata un’abitudine, priva di emozioni? «Gli direi che se non vivi la fede allora è meglio dichiarasi non cristiano… oppure di andare in cerca della vera fede. Vedi qua ho trovato un padre a servizio di tutti, disposto al dialogo. Ciò che non sopportavo della Chiesa era il fatto che l’uomo si arrogasse la verità. Quando invece un uomo messo in croce, giudicato pazzo dalle folle del suo tempo, è stato il primo a perdonare e a dire… “chi è senza peccato scagli la prima pietra”… tutto è cambiato. Pochi rinuncerebbero all’anello d’oro, quando si trova un prete che lo fa, non si può restare gli stessi. Ora, che sto per entrare nella famiglia dei figli di Dio, provo una grande serenità, sento di aver intrapreso un cammino e di aver raggiunto una tappa decisiva della mia vita.

LA SCELTA DI VITTORIA. Vittoria ha sedici anni ed è in 9° classe (scuole superiori). Da grande vorrebbe fare il medico. È orfana. Non hai mai conosciuto la madre.Il padre è morto quando lei aveva solo 7 anni. Ha vissuto con la nonna, cattolica praticante, che non l’ha mai obbligata a diventare cristiana. All’inizio avrebbe voluto entrare a far parte della «Chiesa Universale»«Chiesa Universale» perché la maggior parte dei suoi amici la frequentava. Nel 2006 un’amica l’ha convinta a seguire la Chiesa Cattolica. Frequentando ha cominciato a conoscere la storia di Gesù, l’ha apprezzata e ha chiesto di ricevere il battesimo.  Affascinata dalla scoperta del Risorto il cui volto ha ritrovato negli occhi di sua sorella, Neide non tema di affermare che «un uomo che si fa Dio e che prende su di sé i peccati del mondo, per riscattare tutti gli esseri umani, è semplicemente straordinario, unico, e contagioso. È questo che mi ha convinto del cristianesimo». La fede di Vittoria è immediata e diretta: per Lei Dio è la cosa più semplice. «Se Gesù è Dio non poteva non risorgere dai morti».

NEIDE E IL TRAGUARDO DELLA VITA. Neide è figlia di una famiglia protestante. I suoi genitori appartengono alla chiesa metodista. Frequenta l’Università cattolica, facoltà di «Contabilità e gestione». Prima di aderire alla fede protestante il padre la ammonì «frequenta la Chiesa e poi decidi se vuoi battezzarti o meno». Ma l’esperienza fu negativa: non le piacque la Chiesa protestante, sia perché si pregava in dialetto che lei non conosceva bene, sia perché chiedono di versare il 10% dello stipendio e lei considerava i pastori molto veniali, sempre a cercare di riscuotere.  I protestanti credono in Cristo e nella Pasqua, ma non concordano coi tempi  scelti dalla Chiesa Cattolica.  Da quattro anni ha iniziato a frequentare la Chiesa Cattolica e a partecipare alla Messa. Alla fine ha deciso di seguire la catechesi in preparazione a battesimo. «Non capisco l’apatia di certi  cristiani di fronte alla travolgente novità della Risurrezione. La Chiesa è il luogo di incontro con Cristo, essere cristiano è credere in Dio, è una scelta personale… Il battesimo implica l’assunzione di responsabilità: occorre cambiare mentalità e comportamento, imprese impossibili se non ci fosse la fede… è Cristo che ci aiuta». Neide è felice di aver fatto questa scelta: un traguardo e un punto di partenza per una vita ancora più intensa. 

L’INTERVISTA

Parla il vescovo di Beira, Jaime Pedro Gonçalves:così combattiamo la «casta»Nell’episcopio di Beira, un lungo palazzo a due piani, mons. Jaime Pedro Gonçalves ci accoglie, con cordialità, nel suo studio al piano terra, dove al muro sono appesi un ritratto di Paolo VI e la foto con Giovanni Paolo II. Dopo le presentazioni formali, le strette di mano e i sorrisi, la proposta è di parlare italiano.

Mons. Gonçalves è una vera autorità nel Paese, grazie alla sua opera di mediazione, ha dato un contributo notevole alla pacificazione nazionale, durante gli anni difficili della guerra civile. Iniziamo la nostra intervista chiedendo lumi sul Sinodo africano, che si terrà nel prossimo autunno, e su come si stanno preparando le comunità cristiane, soprattutto quelle della sua Diocesi, a questo fondamentale evento. Mons. Gonçalves è membro del segretariato speciale, nominato dalla Conferenza episcopale africana, per il Sinodo.

«Nelle varie diocesi nei mesi scorsi abbiamo studiato, attraverso le apposite commissioni, i lineamenta. Il Santo Padre durante la sua recente visita in Africa, ci ha fatto dono dell’instrumetum laboris che sarà il nostro punto di riferimento nei prossimi mesi. Nella Diocesi di Beira abbiamo articolato il percorso pastorale in quattro tappe, corrispondenti ad altrettanti documenti, che ruotano attorno al tema dell’identità della Chiesa e della sua missione: La chiesa che vive, evangelizza, celebra e serve. Soprattutto nell’ultimo documento abbiano affrontato le questioni relative alla riconciliazione, giustizia, pace ed educazione. I vari delegati diocesani, lavorando sull’Instrumentum laboris prepareranno degli interventi da presentare in Assise nel mese di Ottobre».

E facendo riferimento alla visita del Santo Padre in Africa non abbiano potuto non chiedere come sono state accolte qui le sue parole e cosa ne pensa della strumentalizzazione a cui, invece, sono state sottoposte dalla stampa laicista. «Vede in Mozambico le parole del Papa non sono state recepite. C’è stata poca comunicazione. Sarà compito del nostro Sinodo approfondire il suo messaggio. Sulle strumentalizzazioni dei media bisogna fare una premessa. Da quando la Chiesa ha chiesto perdono per i peccati, ogni volta che il Santo Padre si muove, sia esso Giovanni Paolo II, o Benedetto XVI, la società laicista pretende che vengano pubblicamente ammessi degli errori. Così per il viaggio del Papa Giovanni Paolo II in America si pretese la richiesta di perdono per gli abusi compiuti dai missionari, con Benedetto XVI la stessa cosa per i preti pedofili degli Stati Uniti. Qui in Africa ci si è attaccati ad una frase, senza aver compreso a fondo il senso delle sue parole, che andavano nella direzione opposta a quella divulgata. Si vuole a tutti i costi applicare un rigido schema ideologico con lo scopo di screditare l’opera della Chiesa».

Monsignor Gonçalves ha avuto un ruolo chiave, grazie alla Comunità di Sant’Egidio, nel processo di pacificazione nazionale, all’indomani della guerra civile. Al riguardo ha dichiarato che «il popolo ha superato le sofferenze della guerra. È stato fatto un cammino di riconciliazione nei villaggi per accogliere di nuovo nella società civile coloro che si erano macchiati di colpe gravi durante il periodo del conflitto. Molte persone avevano barbaramente  ucciso gli avversari: si doveva scrivere la parole fine. Così ci sono state pubbliche cerimonie di perdono. Ora tra il popolo regna la pace. Dove c’è riconciliazione, c’è pace e c’è anche giustizia. Se manca la prima, le altre non possono discendere. Il problema oggi del Mozambico è la corruzione della politica, la ricerca dei privilegi legati all’appartenenza ai quadri dirigenziali, quella che in Italia si chiama la “casta”. Da quando nel 1994 abbiamo avuto le prime elezioni libere, ad ogni appuntamento elettorale, puntuali arrivano le contestazioni sulla regolarità delle operazioni. Il sospetto diffuso è che non ci sia sufficiente trasparenza. La democrazia è un valore quando c’è alternanza delle forze che governano il Paese altrimenti diventa la maschera del regime».