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Natale, la pandemia ci obbliga all’isolamento ma la festa della salvezza è relazione

Nel determinare il senso di questa ricorrenza sono ormai prevalenti motivazioni che si ricollegano a quell’approccio consumistico che è quasi ovunque diffuso. Tuttavia dell’antica festa pagana della Luce e della celebrazione cristiana della nascita del Salvatore è rimasta pur sempre, nella nostra cultura, l’idea che si tratta di una festa di speranza, nella prospettiva di un nuovo inizio delle cose, nonché la tradizione di celebrarla insieme, con una serie di rituali – lo scambio dei doni, ad esempio – che consolidano il senso di comunità. Ciò che è rimasto, in altre parole, è il sentimento di un Natale come celebrazione e cemento delle nostre relazioni più care. Ecco perché siamo chiamati a estendere la nostra accoglienza. Ecco perché è brutto passare da soli questa festa.

E invece è proprio quanto per molti – molti di più di coloro che in passato erano costretti a farlo – dovrà accadere. Sarà un altro tassello che verrà meno nella nostra tradizionale esperienza del Natale. Verrà meno, soprattutto, nell’esperienza dei bambini. Certo: le famiglie, quando lo potranno fare, si riuniranno nel loro nucleo di base. Mancheranno però nonni, parenti, amici stretti. In questi casi, una volta di più, le relazioni in presenza saranno sostituite da Skype e da WhatsApp. Ci ritroveremo ancora rinchiusi nel nostro guscio: con l’alibi che solo così ci si salva.

Ma questo è esattamente il contrario di ciò che comunica il Natale cristiano e di ciò che, ancora, resta nelle modalità consuete in cui viene celebrato. Il senso del Natale, al di là di ogni prospettiva teologica, consiste infatti nell’idea che la salvezza, per un’umanità che ha a che fare con i suoi affanni quotidiani, non può venire dall’umanità stessa. Viene da altrove. Viene dalla possibilità di accogliere quanto viene da altrove. Viene dalla volontà di trasformare quest’accoglienza in una giusta relazione. Il cristianesimo, nella sua fede, sottolinea che quest’alterità che irrompe nella nostra vita possiede la stessa nostra fragilità. Per questo va accolto. E proprio grazie a questa sua fragilità può promuovere la relazione che ci salva.

La pandemia ci ha ormai fatto capire quanto siamo fragili. Tutti quanti. Ci ha fatto capire che ci possiamo salvare solo insieme, solo se i nostri comportamenti non mettono a rischio gli altri: quegli altri che poi, a loro volta possono contagiarci. Ma la stessa pandemia, proprio per evitare il contagio, ci costringe a isolarci. È paradossale, certamente. Ma l’isolamento è un mezzo. Solo un mezzo. Non può essere preso per il fine. 

Il fine è tornare a celebrare pienamente le nostre relazioni. Non dobbiamo scordarlo. Non dobbiamo disperare. Non dobbiamo prendere l’abitudine di chiuderci in noi stessi, diventando più insensibili, più cattivi, più indifferenti. Questo è ciò che il Natale, come festa di quella salvezza che viene dalla relazione, non cessa di ricordarci. Lo fa anche quest’anno. Anzi, proprio quest’anno: quando praticare le relazioni è più difficile, e dunque ne sentiamo la mancanza. Ecco ciò che possiamo condividere di questa festa anche con coloro che non credono, ma, nonostante tutto, ai legami non possono rinunciare. Buon Natale a tutti, dunque.