Italia

Naufragio della Concordia, dieci anni dopo: dalla cronaca locale all’attenzione del mondo

Ricordo come fosse ora quella mattina del 14 gennaio 2012. Ero arrivato in redazione (all’epoca scrivevo su un quotidiano locale, purtroppo oggi chiuso) come sempre, intorno alle 10.30. La sera precedente il giornale era stato chiuso un po’ prima del solito per problemi di stampa e avevamo fatto solo in tempo a fermare la notizia in prima: una nave da crociera aveva avuto un incidente al largo dell’Isola del Giglio. Ci sembrò, sul momento, un incidente senza eccessivo peso, anche perché le notizie che arrivavano dalle agenzie, sulle prime non sembravano raccontare quel che, invece, di lì a poche ore assunse le dimensioni di una tragedia. Grosseto, dunque, si ritrovò catapultata – giocoforza – sulla scena internazionale, perché capoluogo dell’Isola diventata, suo malgrado, il teatro di una calamità che avrebbe segnato per sempre la storia recente della marineria. È vero che le attenzioni furono, comprensibilmente, tutte proiettate sul Giglio, che in poche ore divenne una sorta di grande set sull’acqua, con decine e decine di giornalisti, reporter, impegnati a raccontare 24 ore su 24 le drammatiche operazioni per tentare di salvare quanti più passeggeri possibili e, successivamente, per raccontare le fasi di messa in sicurezza, di raddrizzamento e di trasporto della Concordia, un gigante ferito adagiato sul fondo di quel mare che improvvisamente era diventato anche un cimitero di vite. Grosseto, però, diventò, in quei drammatici mesi, una sorta di hub sulla terraferma da cui partivano e arrivavano troupe di giornalisti, esperti, periti, ma anche molti curiosi. Per noi giornalisti locali fu un doppio lavoro. Da un lato, infatti, si trattava di raccontare un fatto di cronaca che capivamo già essere storia, ben sapendo di essere, per molti versi, surclassati dal pressing delle grandi testate nazionali – soprattutto televisive – che raccontavano praticamente senza soluzione di continuità quanto stava accadendo sull’isola e poi la «fuga» di Schettino, le testimonianze dei sopravvissuti, quelle dei parenti delle vittime che giungevano a Grosseto per il riconoscimento delle salme. Come inserirsi in questo cuneo? L’unica strada fu quella di non rincorrere i media nazionali ed internazionali, ma provare a raccontare la vicenda dal punto di vista di chi in questa terra vive e abita. Al di là dell’aspetto giornalistico del nostro lavoro, avvenne un altro fatto. Le redazioni locali dei quotidiani e delle tv divennero, di fatto, punti di appoggio per molti colleghi italiani ed esteri, che arrivavano a Grosseto un po’ spaesati perché il «circo» che era stato allestito attorno allo «spettacolo» macabro della Concordia non rendeva facile il lavoro di nessuno. È capitato spesso, dunque, di ospitare in redazione colleghi o di fare da filtro e punto di riferimento rispetto alle loro redazioni, soprattutto quelle estere. A pochi metri dalla sede della redazione in cui lavoravo c’era il teatro Moderno, che dopo divenne per l’occasione un’aula di tribunale. È lì, infatti, che venne celebrato il processo; è lì che sfilavano i testimoni e i protagonisti di quel tragico incidente. Strada transennata, camioncini della Tv pronti alla diretta, giornalisti coi taccuini in mano che si appoggiavano a noi «locali» per sapere, approfondire, capire come e dove muoversi. A ripensarci oggi, a distanza di dieci anni, quei lunghi mesi furono una prova di stress per una città di provincia che improvvisamente si trovò catapultata sul «palcoscenico» mondiale e che per certi versi subì anche la pressione dei media per una vicenda che la riguardava, ma anche no. La riguardava come città capoluogo, ma nello stesso tempo si aveva la sensazione – parlando con le persone comuni – che tutta quella grancassa mediatica, a parte l’euforia dei primi momenti – ben presto fosse diventata un fardello.

Giacomo D’Onofrio