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Non isolarsi per non dimenticare gli altri e crescere nell’indifferenza

Questo accadeva prima della pandemia. Oggi è indubbio che tale condizione d’isolamento riguarda buona parte di noi, giovani e vecchi: certo in forme meno patologiche di quelle che caratterizzano gli hikikomori giapponesi. Il periodo nel quale siamo stati costretti a limitare o ad annullare i contatti fisici ha lasciato infatti non poche conseguenze nei nostri modi di pensare e di agire. Il lavoro, poi, continua per molti a dover essere fatto a casa, e le nostre stesse relazioni siamo ormai abituati a gestirle a distanza. Tutto questo fa sì che la solitudine continui a essere, per molti, una realtà: motivata ancora dalla prudenza, ma sempre più difficile da sopportare. E così si diffonde una sensazione di disagio, che non basta qualche passeggiata o qualche incontro a dissipare.

L’uso e l’abuso che facciamo delle tecnologie, in questo quadro, non è la causa, ma l’effetto della solitudine che sperimentiamo. Certamente: se preferisco dialogare con l’assistente vocale del mio smartphone invece che con qualche amico, ciò adesso è reso possibile dal fatto che questo o quel dispositivo, questa o quella piattaforma sono fatti in modo da fornirmi una parvenza di relazione sociale. Ma si tratta di un comportamento che è il sintomo di una certa condizione e che a essa cerca di rimediare: con la conseguenza di sostituire la mia esperienza diretta delle cose con ciò che trovo nel web.

Se tale condizione d’isolamento si consolida, però, e se si radica nella mentalità comune, le conseguenze non solo per il nostro equilibrio, ma soprattutto per la possibilità di una convivenza sociale, rischiano di essere dirompenti. Certo: la tendenza a stare ciascuno sempre più per conto suo era già inscritta nella nostra epoca. In Italia, poi, da sempre siamo abituati a rivendicare il nostro spazio di azione, senza necessariamente considerare quello degli altri. La pandemia sembra aver enfatizzato questo carattere. E così, al di là delle manifestazioni di solidarietà, delle bandiere appese alle finestre, dei canti e gli applausi per chi operava per il bene comune, ciò che rischia di rimanere dopo il lockdown è una sorta di «liberi tutti», in cui ciascuno fa riferimento solo su di sé.

Siamo tutti un po’ hikikomori, dunque, e rischiamo di esserlo sempre di più. Ma non si tratta solo di una patologia specifica, che viene espressa con una parola giapponese. È una condizione in cui possiamo ricadere tutti quanti, ereditandola dall’epoca della pandemia. È anzi un peccato grave, che papa Francesco, ad esempio, non cessa di esortarci a combattere. Si tratta dell’atteggiamento d’indifferenza: nei confronti degli altri, nei confronti di tutto.

L’isolamento, la solitudine, anche se dolorosa, portano a distaccarci dagli altri. Finiscono per produrre indifferenza. È questo ciò che dobbiamo combattere. Solo così, solo uscendo dalle nostre case, solo occupandoci degli altri, solo riprendendo il gusto del mondo saremo pienamente noi stessi. E potremo tornare a essere felici.