Opinioni & Commenti

Non si salva l’Italia uccidendo la Domenica

di Romanello Cantini

Salvo le limitazioni eventuali delle regioni dall’inizio di quest’anno la Domenica non sarà più festa almeno per negozianti e commesse. Gli esercizi commerciali potranno rimanere aperti quanto vogliono. Il provvedimento, secondo il governo, dovrebbe aumentare consumi e occupazione. Due giustificazioni di cui è difficile dire quale sia meno convincente. Se mi arrivano in tasca mille euro al mese non diventano 1.100 solo perché i negozi stanno aperti cento ore ad aspettarmi. Quanto all’occupazione sindacati e organizzazioni di categoria sono concordi nel giudicare che il provvedimento sarà l’ultima mazzata sui residui piccoli negozi a gestione familiare a favore della grande distribuzione. E si sa: un posto di lavoro creato nella grande distribuzione significa la perdita di tre posti di lavoro nella piccola distribuzione. E per un commesso è difficile dire che sia un vantaggio anche solo economico lavorare la domenica se deve per quel giorno pagare una baby sitter. No, non ci sembra proprio che, se uccidiamo la Domenica, si salva l’Italia.

Non vogliamo fare un discorso solo da preti. Questo lavorare e consumare la Domenica ci sembra infatti che manchi di rispetto all’uomo prima ancora che a Dio. Al tempo del ’68 ci fu una sorta di testo sacro dei contestatori di cui oggi sembra che non ci si ricordi più nemmeno a sinistra. Era «L’uomo ad una dimensione» di Marcuse che ci spiegava che il capitalismo adoprava l’uomo come lavoratore per otto ore al giorno per produrre e poi lo usava ancora nel suo tempo libero per fargli comprare ciò che aveva prodotto. Finora si poteva almeno dire che quest’uomo ridotto alla sua dimensione puramente economica ridiventava uomo almeno la domenica. Ma d’ora in avanti con le saracinesche sempre alzate, con le panche delle chiese non piene, con i cinema sempre più chiusi e con gli stadi sempre più vuoti, l’unico grande rito di precetto della domenica sarà il pellegrinaggio dentro la città ridotta a suk o dentro l’outlet.

Cioè i luoghi del nostro tempo che mettono sotto gli occhi delle persone non solo il prodotto, ma quell’immagine del mercato globale con la sua concorrenza infinita e i suoi prodotti innumerevoli che ormai è entrato non solo nella nostra vita, ma anche nei bisogni del nostro cervello e di cui sembra che non possiamo più fare a meno. Forse solo i pochi soldi che abbiamo in tasca potranno ridurre il nostro consumismo domenicale. Forse non saremo consumatori, ma solo turisti di supermercati, di centri commerciali e di vetrine mai spente per la gioia dell’Enel. E non sarà una conclusione meno triste. La Pira ci diceva sempre che l’aumento del tempo libero avrebbe permesso alla persona del futuro di dedicarsi alla contemplazione. Di fronte a questa profezia di grandezza dell’uomo che avrebbe sviluppato già in questa vita un’attitudine da Paradiso, viene da piangere a pensare che noi non riusciamo più a contemplare che gonne, pantaloni e panettoni.

Non si tratta solo di non essere d’accordo sull’impiego della domenica, ma sull’uso in generale dell’uomo. Di questa domenica che si vuole sempre più uguale al lunedì noi vorremmo salvare non solo il riposo di cui perfino Dio onnipotente ad un certo punto sentì il bisogno, non solo la famiglia riunita una volta tanto intorno ad un piatto e ad un discorso, ma anche il dolce far niente che ci ricorda che l’uomo non è l’ultimo animale da lavoro rimasto dopo che tutti gli altri, dal bue all’asino, sono andati in pensione, né è un automobile che tanto più vale quanto più consuma. Vorremmo salvare perfino quella malinconia della Domenica attraverso cui sono passati i poeti che è un’occasione per accorgersi del vuoto che abbiamo in noi e intorno a noi nelle nostre case piene di aggeggi, per domandarsi se la nostra vita ha un senso, per guardarsi dentro e accorgersi magari che l’uomo è anche un «animale metafisico» che ha bisogno di altro una volta tanto che riesca, come diceva Pascal, a distrarsi dalle sue distrazioni.

Della Domenica vorremmo salvare persino quella che più ci fa paura, e cioè la noia. Per quanto non sia piacevole essa ci informa, che, dopo tutto quello che abbiamo fatto e comprato in sei giorni non siamo riusciti ad acquistare in questo modo la felicità e nemmeno la contentezza di sé.