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Olanda: guardalinee e sport uccisi dall’odio. E in Italia?

Facciamo una gran fatica a includere il caso del guardalinee ucciso in Olanda nell’alveo di un avvenimento sportivo: trattasi di assassinio in piena regola, compiuto non tanto da un gruppo di giovani calciatori, bensì da un branco di adolescenti viziati, che neppure sanno evidentemente quale possa essere il valore di una competizione sportiva. E che il fatto sia avvenuto nella civilissima Olanda, e non in uno di quegli Stati del Terzo Mondo sempre additati come luoghi dove il seme della violenza nasce più spontaneamente che altrove, la dice lunga circa il grado di barbarie raggiunto da un certo mondo del calcio.

Parliamo di un certo mondo, perché ci rifiutiamo di avvelenare un movimento che include miliardi di persone, con atti di criminalità pura, che anche se compiuti da minorenni danno il senso del clima di esasperazione diffuso. Però il problema esiste, ed è legato a tanti ambiti: all’educazione personale, a quella familiare soprattutto, prima ancora che a quella sportiva. Perché se un fatto del genere avviene su un campo di gioco, addolora ancor di più sapere che è avvenuto nell’ambito di un torneo giovanile, con una squadra di Amsterdam, la “Nieuw Sloten”, che fa parte di quello sterminato circuito di squadre satelliti che a volte fornisce i suoi campioncini alla grande Ajax, scuola di calcio mondiale per eccellenza. Proprio la società che fu di Cruiff e di Van Basten si vanta sempre di essere, prima ancora che di calcio, scuola di vita: ma purtroppo, anche in Nazioni e in realtà così avanzate, il seme dell’odio può trovare terreno fertile se non arginato da un’educazione attenta e capillare.

Richard Nieuwenhuizen aveva 41 anni e una gran passione per il calcio e i ragazzi della “Buitenboys” (uno di loro era suo figlio), squadra che ospitava quei “calciatori” che poi lo avrebbero assalito, mentre era già a terra, colpendolo ripetutamente a calci e pugni in maniera selvaggia. Dopo poche ore, la morte e un mondo di certezze che crolla, uno scenario fino a poche ore prima impensabile, che tradisce però un clima di esasperazione che anche nei nostri campetti di periferia, senza arrivare a questa tragedia, si respira sempre più spesso. Quando i genitori dei nostri ragazzi urlano contro l’arbitro o contro i piccoli avversari, quando addirittura incitano alla violenza, dietro l’ipocrita etichetta del “gioco maschio”, o del fatto che “il calcio non è fatto per signorine”. Se poi ci aggiungiamo la cultura del risultato a tutti i costi e il fatto che certe scorrettezze vengono viste più come furbate che come infrazioni, ci accorgiamo di essere finiti a pochi centimetri dal baratro.