Italia

Primo maggio: festeggiamo il lavoro contro le nuove forme di sfruttamento

Anzitutto: si tratta della festa del lavoro o della festa dei lavoratori? Troviamo usate entrambe le diciture. In realtà esse dicono aspetti complementari, seppur differenti, della stessa questione.«L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro»: questo recita, come sappiamo, l’art. 1 della Costituzione. Il fondamento della nostra Repubblica è appunto il lavoro. Esso è la condizione per cui ciascun cittadino può realizzarsi come tale. Non solo è condizione di sostentamento, è ciò che dà il pane, ma è il modo in cui ogni individuo esprime le proprie capacità e insieme – come sottolinea l’art. 4 – «concorre al progresso materiale e spirituale della società». Il lavoro, insomma, è un privilegio e un’opportunità che devono essere garantiti a tutti. In questo senso il lavoro va festeggiato.Tutto ciò, comunque, non vale a prescindere dalla qualità, dal tipo, dall’impatto che sono propri del mestiere che possiamo svolgere. Ci sono lavori usuranti. Ci sono lavori sottopagati. Ci sono lavori che ledono la dignità delle persone. C’è il tentativo, nei contesti capitalistici dominati dalla ricerca dell’utile a tutti i costi, di sfruttare chi lavora e di negare non tanto il suo diritto al lavoro, quanto la possibilità di condurre, grazie a esso, una vita piena ed equilibrata. Il lavoro, infatti, non può prendere il posto della vita. A ciò si riferisce l’art. 36 della Costituzione italiana quando stabilisce che «Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro», e ne garantisce il riposo settimanale e le ferie retribuite. Questo risultato, però, è l’esito di una serie di lotte e di progressive conquiste. Sono ciò che i lavoratori celebrano nella loro festa.Ecco dunque quello che ricordiamo ogni anno il 1º maggio. Le cose però stanno cambiando. E stanno cambiando sia per quanto riguarda il significato del lavoro, sia per ciò che concerne la condizione dei lavoratori. Anche qui i due aspetti sono collegati.Abbiamo di fronte, da tempo, nuove forme di sfruttamento, nuovi modi di subordinare gli esseri umani ai processi produttivi. Essi non sono più, magari, quelli della catena di montaggio, ma sono quelli in cui le tecnologie dettano i tempi e i modi ai quali l’essere umano, se vuole trovare un’occupazione, deve adattarsi. Ne conseguono il rischio di una perdita di umanità, conseguenza dell’imporsi dei comandamenti della velocità e dell’efficienza, e l’esperienza della precarietà. Non solo infatti i più recenti sviluppi tecnologici, quelli basati sull’intelligenza artificiale, stanno trasformando certe professioni, ma ne stanno eliminando molte.Il lavoro, dunque, non sembra più essere il modo in cui le persone si realizzano nelle loro possibilità e nei loro talenti. Il lavoro diventa un peso. Lo si fa per guadagnarsi da vivere. E lo si può abbandonare per fare ciò che piace davvero, almeno per un po’, una volta che si è guadagnato abbastanza. Lo si evita, se si trova un’altra fonte di reddito. Emerge insomma la contrapposizione fra l’esercizio di un’attività lavorativa e la realizzazione di sé attraverso il lavoro.In tale scenario che senso ha festeggiare il lavoro e i lavoratori, magari andando nelle piazze per ascoltare l’ennesimo concerto? Ha senso se il 1º maggio diventa l’occasione per ripensare davvero il lavoro nel mondo in cui viviamo. Ha senso se questa celebrazione offre l’opportunità di prendere le distanze da condizioni di subordinazione e di alienazione che non vengono più determinate solo da situazioni ben conosciute nel passato, e magari anche combattute, ma che oggi risultano soprattutto dettate da procedure tecnologiche del tutto inedite, che tacitamente subiamo e alle quali, anzi, talvolta aderiamo volontariamente.Si tratta di un esito che mortifica il valore del lavoro: quello richiamato dalla Costituzione. Esso uccide il lavoro in quanto espressione propria dell’essere umano. E se prende il sopravvento nella mentalità comune, finisce per renderci tutti non solo poveri, ma soprattutto infelici.