Cultura & Società

Quel sogno di Martin che cambiò l’America

Sessant’anni fa il reverendo King, sollecitato dalla cantante gospel Mahalia Jackson, improvvisò il discorso che passò alla storia e costrinse il Paese a sottoporsi alla più grande trasformazione politica della sua storia. A caro prezzo, perché poco meno di cinque anni dopo il pastore fu ucciso, due mesi prima di Bob Kennedy

Martin Luther King

«Parla del sogno, Martin! Parla del sogno». Mahalia Jackson, la grande cantante gospel glielo urlò al Lincoln Memorial davanti a 250mila persone, il 28 agosto 1963. E non smetteva di ripeterlo, dopo aver intonato per Martin, la celebre We Shall Overcome. «Sembrava di essere alla messa in una di quelle chiese gospel nelle quali i fedeli fanno le loro osservazioni a voce alta», ha raccontato George Raveling, un ex giocatore di basket che si trovava sul palco, alla conclusione della marcia su Washington a favore dell’uguaglianza razziale. Allora Martin Luther King mise da parte i fogli che si era preparato per il discorso, in tutto sette paragrafi, e cominciò a improvvisare. «I have a dream», «Io ho un sogno». Che richiama un po’ l’altro passaggio famoso, che l’aveva preceduto nel tempo, il 20 gennaio 1961: quello del discorso di insediamento di John Kennedy, che il presidente della nuova frontiera americana aveva però pronunciato dopo diverse stesure e ripensamenti: «Non chiedete che cosa il vostro Paese può fare per voi, ma che cosa voi potete fare per il vostro Paese», disse. Un passo politico memorabile, frutto di studi e letture, ispirato a modelli di retorica, come quelli di Churchill e di Lincoln.

La frase che è entrata nella storia, sessanta anni fa, invece, il pastore protestante Martin Luther King, la scandì a braccio, sul palco di Washington.

«Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle ma per chi sono nel cuore».

La forza di quelle parole sta nella spontaneità e nell’improvvisazione, nell’efficacia che trascinò la passione degli attivisti neri («Vogliamo tutto, qui e ora») ma costrinse anche l’America tutta a confrontarsi pubblicamente con la propria coscienza. Il presidente degli Stati Uniti John Kennedy, poche ore dopo la marcia, accolse il reverendo King nello studio ovale alla Casa Bianca, ripetendo «I have a dream». L’anno successivo, con il Paese ancora sotto choc per l’assassinio di JFK, il suo successore, Lyndon Johnson firmò il Civil Rights Act, che vietava la segregazione razziale e la discriminazione negli Stati Uniti.

Martin Luther King, che era nato ad Atlanta, in Georgia, in una devota famiglia cristiana, seppe unire molti gruppi afroamericani e fu una delle voci di spicco del movimento per i diritti civili, dopo anni in cui i neri d’America avevano subito le infami leggi sulla segregazione, tagliati fuori dalle scuole migliori, dai ristoranti, dai servizi igienici, dai trasporti pubblici, da molte professioni, oltre ad avere salari inferiori ai bianchi.

King raccolse la protesta silenziosa e pacifista, di ispirazione «ghandiana» e la trasformò in un potente strumento di pressione, alimentando le ribellioni che già avevano scosso la società americana senza tuttavia raggiungere una svolta. Ci vorrà qualche anno ancora. Finché si arrivò a quel discorso che oggi celebriamo e che rappresenta lo spartiacque fra il «prima» e il «dopo».

Prima: rimane nella storia l’episodio che nel 1955 vide come protagonista Rosa Parks, simbolo del movimento, eroina dalla pelle nera. Parks faceva la sarta: diventò famosa perché una mattina, salendo sull’autobus, si rifiutò di cedere il posto a un bianco. Da questo gesto coraggioso nacque il boicottaggio dei bus: i neri decisero di non utilizzare più i mezzi pubblici, sostenuti dai tassisti afroamericani che adeguarono le loro tariffe al ribasso per agevolare i passeggeri di colore. Ci fu un’ondata di proteste e anche arresti, fra cui la stessa Rosa Parks. Luther King fu inizialmente chiamato in causa come avvocato, ma il suo carisma e la potenza della sua parola lo trasformarono presto nel leader che saprà portare la comunità afroamericana a un riscatto che sembrava utopia. Soprattutto negli Stati del Sud, dove le leggi sulla discriminazione erano state introdotte nel 1877, dodici anni dopo l’abolizione della schiavitù e che dunque erano piuttosto radicate.

Dopo: la Storia cominciò a cambiare. Sia pure a caro prezzo. La lotta di Martin Luther King lo espose a pericoli e minacce continue: una volta rimase intrappolato in una chiesa e dovette chiamare il procuratore generale Robert Kennedy che inviò la Guardia nazionale per liberarlo dalla folla.

Lo stesso Robert e suo fratello JFK, temevano che la marcia di Washington del 1963, quella del discorso sul «sogno», si potesse trasformare in una rivolta di proporzione mai viste capace di incendiare l’America. Perciò furono richiamati 5mila riservisti come rinforzo, vennero vietati gli alcolici e il Paese visse quelle ore, come si direbbe oggi, in stato di allerta. Tanta preoccupazione fu però smentita dai fatti e, nonostante fossero in 250mila a sfilare, la manifestazione si rivelò una festa pacifica, fra l’altro trasmessa in diretta tv dall’emittente statunitense CBS.

A quella marcia così perfetta e composta, ma politicamente devastante, ne seguirono altre, partite da Selma, in Alabama. La prima, il 7 marzo 1965, chiedeva il diritto di voto per tutti gli afroamericani: seicento persone furono caricate dalla polizia; l’ultima, il 25 marzo, il reverendo King e 25mila persone arrivarono fino alla porta del governatore, semplicemente per chiedere uguaglianza.

La potenza pacifista del movimento di King ebbe più effetti di una guerra con le armi, perché costrinse l’America a sottoporsi alla più grande trasformazione politica della sua storia. Ma toccò anche la sensibilità della parte bianca, bigotta e conservatrice, che aveva paura di Martin Luther King e del messaggio che sapeva trasmettere. Lo infamarono in tutti i modi, compresa una lettera all’Fbi che forniva dettagli sulla sua vita extraconiugale, e gli distrussero la casa con la dinamite. Infine lo uccisero, il 4 aprile 1968, esattamente due mesi prima dell’assassinio di Robert Kennedy, che gli era stato a fianco in molti momenti delle sue battaglia.

Bob Kennedy e King sono due figure che, ancora oggi, rappresentano gli ideali di una intera generazione alla ricerca di pace e fratellanza. Che non distingue il colore della pelle, né accetta disuguaglianze sociali. E crede che un sogno possa davvero cambiare la Storia.