Cultura & Società
Rubini e Picca al carcere minorile di Firenze: “Studiate e liberatevi”
l regista e lo scrittore hanno incontrato i giovani detenuti: un dialogo partito da Foscolo e alcune pagine di «Jacopo Ortis»

«La cultura è potere, la conoscenza è potere. Chi studia si guadagna una fetta di libertà Questo è il consiglio che vi do: acculturatevi e liberatevi». Sono parole importanti quelle che Sergio Rubini porta al Meucci, l’istituto penale minorile di Firenze. Davanti a lui ci sono i «ragazzi dentro», che a vederli così – attenti, curiosi, pronti a fare domande – non sono poi così diversi dai loro coetanei fuori dal carcere.
L’occasione è l’iniziativa «Libri Liberi», promossa dalla Fondazione De Sanctis (con il patrocinio del ministero della Giustizia e in collaborazione con il centro per il libro e la lettura del ministero della Cultura) per far incontrare la grande letteratura ai giovani ospiti degli istituti penali d’Italia. La tappa fiorentina vedeva Aurelio Picca, poeta, scrittore e giornalista, insieme all’attore e regista Sergio Rubini. Il grande classico scelto per la giornata era il romanzo epistolare «Ultime lettere di Jacopo Ortis» di Ugo Foscolo. «Quando scrive questo libro Foscolo era un ragazzo come voi» grida Picca: «Aveva 18 anni, era inquieto e smarrito, strappato alla sua terra natale, preso da mille passioni, in lotta con le autorità. Per questo, per raccontarsi, inventa un alter ego, il suo doppio letterario. Questo è un libro che incita alla lotta. Ma la ferocia non sta nel distruggere, non sta nell’infrangere la legge: quello è facile, lo possono fare tutti. Sta nel costruire. Questo libro racconta la furia della battaglia con sé stessi. Anche voi fate le cose difficili!»
Dopo il momento intenso della lettura dei brani dell’Ortis, in un silenzio impressionante, Rubini e Picca si mettono in ascolto delle domande dei ragazzi. Cosa conta nel mestiere dell’attore, dello scrittore? La fama o i soldi? «È importante la passione con cui si fanno le cose – risponde Rubini – la paga sicuramente ha un valore, è un riconoscimento. Ma non lavori mai solo per la paga. Casomai lavori per quello a cui la paga serve, che può essere mantenere una famiglia: questo vale per qualsiasi lavoro tu faccia. Poi ci sono cose che non si fanno per la paga, come noi che stiamo qui con voi oggi, non siamo pagati, ci siamo perché ci faceva piacere esserci».
E come si diventa attori? Rubini racconta il suo percorso: il suo sogno era fare il tastierista in una band. Poi fu sostituito con uno più bravo. «Ero disperato e accettai la proposta di mio padre di recitare con la sua compagnia di teatro. Feci le prove annoiato. Poi sul palco capii che un attore può fare tante cose: fa una pausa e tutti stanno zitti, dice una battuta comica e tutti ridono». Di qui l’iscrizione all’accademia e i primi lavori: «Potevo perdermi, il teatro mi ha salvato. Quella prima volta con mio padre ebbi come una vocazione, una chiamata. È difficile capire da ragazzi cosa si vuol fare. Te lo devi sentire risuonare dentro. Passione è anche patire, soffrire per realizzare quello che si sente». «Passione è anche la Passione di Cristo, in questi giorni ci siamo» ricorda Picca. E com’è per un attore vedersi dall’esterno? «Non ci piacciamo mai, è normale» risponde Rubini, «poi io ho iniziato a fare il regista e pian piano mi sono abituato a rivedermi. Diciamo che mi sono abituato a non piacermi».
L’ultimo pensiero è sul carcere, un mondo di cui spesso si parla per i problemi, il sovraffolamento, i suicidi… Rubini si rivolge ai ragazzi: «Io oggi ho trovato accanto a voi persone appassionate, di grande umanità. Dietro le mancanze dello Stato ci sono le persone, c’è una società civile che non si arrende al cinismo. Oggi non ho avuto una brutta impressione, non torno a casa arreso, torno con una grande energia». Fa eco Picca: «Oggi abbiamo carceri allo stremo, è un problema grave di cui alla gente purtroppo frega poco. Ma non ci si deve arrendere».
Il saluto finale è del comandante Mario Salzano: «Grazie per il bel messaggio di umanità e di cultura che avete portato».