Alla riconquista del passato:«IL PIANISTA»

A ben guardare, l’idea del ghetto è molto presente nel cinema di Polanski: la barca de «Il coltello nell’acqua», il castello di «Cul de sac», la casa claustrofobica di «Repulsion», la dimora dei vampiri di «Per favore non mordermi sul collo», il palazzo di «Rosemary’s Baby», la villa sul mare di «Che?», il condominio de «L’inquilino del terzo piano», la nave di «Luna di fiele», la stanza de «La morte e la fanciulla». Tutte immagini simboliche, che ne «Il pianista» devono trasformarsi in realtà.
E Polanski, che in un certo senso per la prima volta modifica il proprio stile abbandonando ogni eccesso, non può che dividere il film (obiettivamente troppo lungo) in due parti distinte. Quando si tratta di descrivere Varsavia, il ghetto e le violenze naziste, Polanski fa ricorso all’archivio del già visto, ottenendo un risultato storicamente credibile e realistico, ma di scarso impatto emotivo. Quando invece Wladyslaw Szpilman, salvato dalla deportazione, resta solo e deve vivere quasi tre anni in nascondigli di fortuna, lontano dagli amici e dalla musica che continua a suonare soltanto nel suo cuore, Polanski decolla e riesce a raccontare con grande proprietà di toni ed emozioni il difficile percorso di un’anima.
Arrivando all’apice del coinvolgimento quando Szpilman, scoperto da un ufficiale tedesco, si qualifica come pianista e, suonando una ballata di Chopin, tocca il cuore del nemico guadagnando il diritto a sopravvivere. Qui la musica diventa simbolo di pace e fratellanza, comunque di qualcosa che va oltre le razze e le divise. E insieme alla musica, il cinema. Adrien Brody, bravo a rendere l’idea dell’artista a confronto con una realtà terribile ma attentissimo a non perdere i contatti con quell’arte che potrebbe salvarlo, è un interprete ideale da cui potevamo attenderci soltanto qualche sorriso in più che nulla avrebbe tolto alla durezza della Storia.
IL PIANISTA (The Pianist) di Roman Polanski. Con Adrien Brody, Thomas Kretschmann, Frank Finlay