“Non abbandonarci alla tentazione”: cosa diciamo quando preghiamo il Padre Nostro
La preghiera del Padre Nostro cinque anni fa è stata modificata dicendo «non abbandonarci alla tentazione». Come nasce questa modifica?

Prima di partecipare al banchetto eucaristico c’è la preghiera del Padre Nostro che cinque anni fa è stata modificata dicendo «non abbandonarci alla tentazione» rispetto a quando dicevamo «non ci indurre in tentazione». Indurre in tentazione lo dice il secondo capitolo del Libro di Giobbe quando lui stesso vince la tentazione di Satana tramite Dio. Come nasce questa modifica della preghiera?
Marco Giraldi
Risponde don Stefano Tarocchi, preside della Facoltà teologica dell’Italia centrale e docente di Sacra Scrittura
Non si tratta di una modifica della preghiera, ma solo un modo diverso di tradurla. La traduzione della Cei (2008) riporta: «non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male».
Il verbo greco che è alla base significa alla lettera «far entrare, introdurre». Tutto sta a vedere che cosa intendiamo con la parola «tentazione», o per meglio dire «prova» (peirasmòs). Ora, è evidente che Dio, per quanto permetta che i suoi figli vengano a confrontarsi con una prova, non potrà mai esserne il responsabile diretto, a meno di non intendere letteralmente un linguaggio del tipo: «Io uccido e faccio vivere, percuoto e guarisco, e nessuno può liberare dalla mia mano» (Dt 32,39), oppure «perché egli ferisce e fascia la piaga, colpisce e la sua mano risana» (Gb 5,18). Detto linguaggio indica piuttosto il fatto che, all’occhio dell’autore sacro, il Creatore è presente in tutta la creazione.
In queste brevi righe tenterò un percorso che sfiora soltanto tutta una serie di testi, a cominciare dall’Antico Testamento. Mi permetto di rimandare a un corso sull’intero Padre Nostro che sarà tenuto nella prossima estate all’abbazia di Vallombrosa.
Cominciamo guardando ad Abramo: «Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo, Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”» (Gen 22,1). O anche «il Signore rese ostinato il cuore del faraone» (Es 9,20; cf. 9,35; 10,20.27; 11,10; ecc.). Ancora, nel libro dell’Esodo, a proposito del popolo d’Israele: «Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi» (Dt 8,2).
Lo stesso Mosè ne è coinvolto: «Egli invocò il Signore, il quale gli indicò un legno. Lo gettò nell’acqua e l’acqua divenne dolce. In quel luogo il Signore impose al popolo una legge e un diritto; in quel luogo lo mise alla prova» (Es 15,25).
Il Salterio poi dice: «O Dio, tu ci hai messi alla prova; ci hai purificati come si purifica l’argento» (Sal 66,10) e ancora «Hai gridato a me nell’angoscia e io ti ho liberato; nascosto nei tuoni ti ho dato risposta, ti ho messo alla prova alle acque di Merìba (Sal 81,8).
Un approfondimento appena maggiore voglio dedicarlo al libro di Giobbe.
Così leggiamo: «Dio conosce la mia condotta, se mi mette alla prova, come oro puro io ne esco» (Gb 23,10). Giobbe parla di sé stesso, che Dio ha lasciato in potere del satana, ammesso alla stessa corte divina: «i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore e anche Satana andò in mezzo a loro. Il Signore chiese a Satana: «Da dove vieni?». Satana rispose al Signore: «Dalla terra, che ho percorso in lungo e in largo». Il Signore disse a Satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male». Satana rispose al Signore: «Forse che Giobbe teme Dio per nulla? Non sei forse tu che hai messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quello che è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e i suoi possedimenti si espandono sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti maledirà apertamente!» (Gb 1,6-11).
In un crescendo drammatico è ancora concesso di dire a satana: «Pelle per pelle; tutto quello che possiede, l’uomo [ossia Giobbe] è pronto a darlo per la sua vita. Ma stendi un poco la mano e colpiscilo nelle ossa e nella carne e vedrai come ti maledirà apertamente!» (Gb 2,4-5). A Satana è concesso di operare contro Giobbe, purché sia risparmiata la sua vita. A Giobbe non rimane che lottare con tutte le sue forze, finché, alla fine del suo lungo percorso, incontra il Signore: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (Gb 42,5).
Passando rapidamente al Nuovo Testamento, riguardo allo stesso Gesù, si legge nella lettera agli Ebrei che «per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Eb 2,18).
Gesù stesso è stato sottomesso alla prova dai suoi avversari. Un solo esempio per tutti: la vicenda della donna scoperta in flagrante adulterio: «Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra» (Gv 8,6). E nel Vangelo di Luca si aggiunge anche: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove» (Lc 22,28).
Gesù ha messo alla prova la fede dei suoi discepoli: «Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”. Diceva così per metterlo alla prova; egli, infatti, sapeva quello che stava per compiere» (Gv 6,5-6).
Anche nel racconto della parabola del seme leggiamo: «Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada» (Mt 13,9).
Tuttavia, come scrive la lettera di Giacomo «nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male» (Gc 1,13). Per questo nessuno può mettere alla prova il Signore: «Non tenterete il Signore, vostro Dio, come lo tentaste a Massa» (Dt 6,16). Questo stesso testo è citato nel Vangelo di Matteo e di Luca (Mt 4,7 e Lc 4,12), alla fine dei quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto: «Gesù rispose [al diavolo]: «Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo»; «Gesù rispose: «È stato detto: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo»».
Infine, come dice Paolo: «Dio è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere» (1 Cor 10,13).
Vorremmo chiudere con la parafrasi del Padre Nostro di Dante, all’esordio del canto XI del Purgatorio: «Nostra virtù che di legger s’adona, / non spermentar con l’antico avversaro, /
ma libera da lui che sì la sprona». Con il suo linguaggio ricco d’immagini, il padre della lingua italiana permette di affrontare in maniera creativa il dilemma sollevato dal lettore, e risolve in questo senso l’«ambiguità» della traduzione liberaci dal male. Il testo originale può infatti indicare entrambi i sensi, ma anche richiamare, come avviene nel libro dell’Apocalisse, la prima pagina della Bibbia: «il grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato diavolo e il Satana e che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli» (Ap 12,9).
In conclusione, possiamo affermare che qualunque traduzione non può rendere la ricchezza del testo originale, ma neanche può pretenderlo, né tantomeno essere presentata come l’unica lettura possibile. Certo è che dire: «non ci indurre in tentazione», trasportando nella lingua italiana l’antico testo latino della Vulgata di san Girolamo, non è affatto migliore del «non abbandonarci alla tentazione». Quest’ultima soluzione, peraltro, piaccia o no, rischia di creare più problemi di quanti ne risolva.