Prato

Santi, “nonno Renzo parlava di Dio partendo da un filo d’erba”

Aveva mai immaginato che suo nonno Renzo potesse un giorno diventare santo? «Ammetto di no, ma se per santo si intende una persona al servizio di Dio dico sì: ha cercato di vivere una vita diversa, dedicava molto tempo alla preghiera, ma soprattutto aveva qualcosa di particolare nel suo essere». Miriam Fusai è una nipote di Renzo Buricchi, aveva undici anni quando il Tabaccaio di Prato è morto, il 6 ottobre 1983. A quasi quarant’anni di distanza, questo sabato 8 ottobre, si apre la prima fase del processo di beatificazione di Buricchi, già dichiarato dalla Chiesa come Servo di Dio.

La mamma di Miriam è Mariapia, unica figlia di Renzo e Misora Buricchi, e sorella di Simona e Silvia, più grandi di lei di una decina d’anni. «Ho conosciuto il nonno da bambina, lo ricordo quando lavorava alla tabaccheria in piazza del Comune, ma soprattutto lo ricordo nella sua casa in via Frascati al tavolo, mentre recitava il rosario, leggeva il Vangelo oppure scriveva», ricorda ancora la nipote. Lei, insieme alle sorelle e ad altri trenta testimoni sarà chiamata dal tribunale diocesano per la causa di beatificazione a raccontare chi era Renzo Buricchi, cosa diceva, come si comportava, se aveva ravvisato in lui le note «virtù eroiche» necessarie per istruire l’inchiesta da inviare alla Congregazione per le cause dei Santi. E allora, chi era nonno Renzo? «Apparentemente sembrava burbero, ma era un uomo dolce. Mi incuriosiva e incuriosiva chi lo incontrava. Non diceva mai cose banali, talvolta non capivo bene dove volesse arrivare con le sue storie, raccontava come delle novelle, come delle parabole. Ho capito dopo che era un modo per avvicinare le persone». Gli occhi di bambina della piccola Miriam avevano capito che quell’anziano signore con i baffi aveva come primo pensiero quello di aiutare gli altri a capire il senso della vita «e lo faceva in un modo tutto suo: partiva sempre da lontano, era capace di spiegare concetti ampi, difficili come l’esistenza di Dio, partendo da un filo d’erba», afferma Miriam. Aveva un modo di fare che colpiva, a qualche avventore distratto quel tabaccaio filosofo poteva sembrare un po’ svitato, ma era comunque «magnetico», le sue frasi, visionarie, strane, sono state l’esca con la quale ha portato tanti pratesi a interrogarsi sul significato della propria vita. Testimonianze in questo senso ce ne sono molte. «Io però ero troppo piccola per questi discorsi alti – dice ancora la nipote – ma sapevo degli incontri che faceva con gli amici, del lavoro che aveva fatto e stava facendo su stesso. Poi il libro di Marcello Pierucci, “Un cipresso per maestro”, ha confermato e reso evidenti tanti aspetti che avevo visto o che mi avevano raccontato la mamma e la nonna». Un altro aspetto di Buricchi conosciuto da Miriam è quello dell’amore per gli animali e la natura, elementi del creato dalla cui osservazione era arrivato a spiegare l’esistenza di Dio, padre di tutte le creature.

 

C’è un episodio, un momento che ha vissuto con lui che le è rimasto impresso? «Il momento della sua morte. Era ricoverato in terapia intensiva ma continuava a ripetere a noi familiari, ai medici e agli infermieri di non avere paura della morte perché è una esperienza bellissima. Ci spiazzò tutti, non diceva mai cose usuali, diceva cose diverse». Quando sarà il suo turno, Miriam racconterà questi ricordi al tribunale diocesano, di fronte al quale dice di andare «assolutamente serena e tranquilla», proprio come era il nonno Renzo, l’uomo che riusciva ad avvicinarti a Dio con un filo d’erba.