Opinioni & Commenti

Se la scuola funzionasse le bocciature non servirebbero

di Giuseppe Savagnone

I dati parlano chiaro: 70 mila studenti bocciati alle medie, il 42,2% di quelli delle superiori non promossi (il 28% con debiti, il 13,6% bocciati), 29 mila ragazzi non ammessi all’esame di Stato. La scuola del rigore, inaugurata dal ministro Fioroni (chi sa perché, sono pochissimi oggi a ricordare che è stato lui a rompere il trend perverso dei debiti non saldati), ha trovato nella Gelmini una decisa e coraggiosa sostenitrice.

A cui dobbiamo (un altro atto di coraggio) anche la stretta sulla disciplina, da tanti criticata, e che invece, da parte nostra, riteniamo in linea con un modello di scuola che non si limiti a impartire nozioni, disinteressandosi della maturazione umana degli studenti, ma valuti la loro crescita intellettuale nel contesto del loro comportamento complessivo. Anche se aver inserito il voto di condotta – solitamente abbastanza alto – nella media finale ha costituito un regalo ingiustificato a quegli studenti che studiano poco, ma che un otto o addirittura un nove in condotta riescono a strapparlo…

In questo contesto c’è da aspettarsi che anche gli esami di Stato appena iniziati, e opportunamente affidati a commissioni miste di esterni ed interni (anche in questo la Gelmini sta giustamente continuando le scelte del suo predecessore), non si riducano ad una inutile sceneggiata, come era accaduto purtroppo negli ultimi anni, quando le commissioni erano state composte dai soli professori interni.

Certo, c’è da chiedersi se tutto questo basti a riqualificare la scuola. Le misure repressive servono, e come!, per dare dei segnali. Ma non possono sostituire quelle preventive. I dati che da un lato testimoniano l’avvento sempre più marcato della scuola del rigore, dall’altro rivelano le carenze di questa stessa scuola, quando deve trasmettere competenze disciplinari e formare le intelligenze. In un sistema educativo che funziona, alle bocciature non dovrebbe esservi bisogno di ricorrere.

Lo stesso vale, peraltro, per le misure disciplinari: ben vengano le punizioni per chi non rispetta le regole. Ma educare non può ridursi a punire. E c’è da chiedersi se questa scuola è veramente in grado di comunicare efficacemente ai giovani che la frequentano un modo di pensare e di sentire che renda superflue le punizioni.

Su questo, probabilmente, questo ministero (come del resto quelli che lo hanno preceduto)  insiste troppo poco. Forse per evitare l’imbarazzante constatazione che il governo, con i tagli effettuati, sta rendendo più affollate e meno omogenee le classi, con effetti negativi sia sulla qualità dell’istruzione che sul lavoro educativo.

Ma alla radice del declino della nostra scuola sta, ben più a monte, una progressiva squalifica dell’identità dei docenti, a cui hanno dato un vigoroso contributo governi, sindacati, società civile e, in una certa misura, i docenti stessi. È scomparsa o quasi la figura dei «maestri» – persone di cultura ed educatori – ed è rimasta una pletora di impiegatucci mal pagati e del tutto irrilevanti dal punto di vista sociale.

C’è da stupirsi che un certo numero di loro riesca ancora, malgrado tutto, a fare un lavoro di buona qualità. Ma non si tratta, ovviamente, della maggioranza. Il problema è innanzi tutto la riqualificazione di una figura professionale che è essenziale per la qualità della scuola. Il problema non è solo economico, ma anche culturale. Soprattutto per quanto riguarda il capitolo relativo all’impegno specificamente educativo. Troppo spesso si ha l’impressione che l’unica questione in gioco, per il futuro della nostra scuola, sia risalire le graduatorie dell’Ocse riguardanti le competenze disciplinari. Se si vuole che la scuola del rigore sia anche, e prima di tutto, una scuola che fa crescere le persone, bisogna cominciare a chiedersi se abbiamo ancora qualcosa a cui educare i nostri giovani.