Toscana

Sinodo, la medicina per la Chiesa

di Claudio Turrini

«Ogni Sinodo è come passare il pettine. Tutte le volte che c’è un confronto obiettivo puntualmente emergono i problemi di questa stagione postconciliare. Non c’è da strapparsi le vesti». Dino Boffo, 53 anni, direttore del quotidiano Avvenire invita a non enfatizzare i problemi della Chiesa emersi in questi giorni di dibattito al Sinodo. Il fatto che siano venuti fuori dimostra solo che il confronto è stato sincero, obiettivo. Anche se riconosce che forse l’immagine di Chiesa che è emersa in tanti resoconti è un po’ strabica. Rivela un «deficit nella nostra pubblicistica contemporanea», una sorta di «handicap» che porta a interessarsi «più della patologia che della radiografia obiettiva», forse perché priva di adeguati «codici di decodifa».

Boffo, che in questi ultimi anni ha assunto responsabilità crescenti nei media della Chiesa italiana, pur non avendo partecipato al Sinodo è un osservatore privilegiato di questo grande evento ecclesiale. Si dice colpito soprattutto da quel «caleidoscopio straordinario, infinito, di situazioni, di testimonianze, di condizioni in cui vive la Chiesa oggi», così come è emerso dai resoconti degli interventi dei padri sinodali.

Lo abbiamo raggiunto telefonicamente a Roma, nella sede di Sat 2000, martedì scorso, per chiedergli di aiutarci a capire meglio, a «decodificare» appunto, questo grande evento ecclesiale.

Qual è stato il centro, il fuoco, di questo Sinodo?

«Quello che abbiamo visto lunedì pomeriggio, con quell’adorazione intensa e commossa. Gesù vivo e presente oggi nella storia e nella vita degli uomini: questo è il punto centrale di questo Sinodo. È l’ora storica di Gesù che si estende a noi e ci include e include tutti gli uomini ovunque si trovino. Che si fa consolazione, medicina, pane per il cammino».

Quali segni potrà lasciare sulla Chiesa?

«Da questo Sinodo la Chiesa non esce indenne. Esce colpita, impressionata, dalla dottrina eucaristica, che ha avuto un forte rilancio in questo anno dell’Eucarestia, nel cui svolgimento è avvenuto lo scambio di testimone tra due papi grandi, nel segno appunto dell’eucarestia. Credo che avremo un rilancio della dottrina eucaristica senza compressioni e mutilazioni. Una dottrina che non accetta gestioni pigri o rassegnate, ma generose, di grande impeto».

Si è molto discusso, anche in riferimento ai divorziati e ai risposati o all’intercomunione, dell’eucarestia come «dono» o come «diritto».

«È anzitutto dono. Nessuno sarebbe riuscito a inventare con la propria fantasia un tale sacramento: il Figlio di Dio che si fa carne per l’umanità di tutti i tempi, fino alla Parusia, è un’invenzione che poteva venire solo da Dio e dal suo Figlio. È anche diritto, seppur un diritto relativo alle condizioni poste, cioè alle condizioni che vengono indicate in chi riceve questo sacramento e per quanto riguarda i ministri dell’eucarestia».

Al Sinodo erano presenti vescovi di Chiese sorelle. Dal punto di vista ecumenico sembra ci siano passi avanti, come l’annuncio di un sinodo comune con gli ortodossi…

«Ho l’impressione che questo sia uno degli ambiti nei quali si potranno registrare degli avanzamenti da qui ai prossimi anni, perché è uno dei campi concreti in cui può brillare di più l’ecumenismo di desiderio e l’ecumenismo spirituale. Cioè l’ardore dell’attesa dell’intercomunione, il mangiare tutti i cristiani lo stesso pane, è un ardore che avvicina il tempo del compimento. Verranno dei segnali nuovi…».

Una qualche differenza di accenti si è avuta sul tema della liturgia, con gli africani a difendere l’inculturazione e altri, specie dai paesi dell’Est europeo, a invocare un ritorno alla tradizione.

«Le esigenze dei vescovi africani sono pregevoli: è da incoraggiare lo sforzo di incarnare i sacramenti dentro le singole culture umane. Ovvio che non debbono scappare di mano. Però lo sforzo dell’inculturazione è assolutamente pregevole, perché dice l’impegno di dar significato pieno, in base ai codici culturali dei popoli, al grande bene dell’eucarestia. Nello stesso tempo, paradossalmente, qui registriamo un corto circuito. Proprio perché apprezzo le danze africane in San Pietro e sono incantato a veder, non lo spettacolo, ma qual è l’alfabeto di quel popolo nel suo parlare con Dio, propria questa inventiva dovrebbe indurci a una maggior riflessione sul nostro modo di accostarci ai sacramenti, perché non sia mai banalizzante. Noi ci accostiamo al Signore con tutto il nostro essere, anche con la dimensione corporea e quindi se per gli africani questo significa danzare, probabilmente per noi europei e la nostra cultura significa concentrazione e compostezza. L’importante è che ci si interroghi se ci si accosta all’eucarestia nel modo migliore, più coinvolgente la persona che riceve Gesù».

Altro tema che è risuonato è stato quello della necessaria coerenza, anche in politica.

«Non ci si accosta al corpo e al sangue del Signore impunemente, perché assumendolo noi assumiamo l’impegno ad essere “cristofori”, cioè portatori di Cristo. Ha ragione il Prefetto della Dottrina della fede, mons. Levada: dobbiamo stare attenti a non rendere evanescente il sacramento, a non spiritualizzarlo al punto da non rilevarne le potenzialità di vita nuova che deve incrementare. E tuttavia direi di non farci risucchiare in una ulteriore casistica. È molto importante affidare ai fedeli la consegna della coerenza ed insistere su questa. Certamente c’è un rapporto tra eucarestia e politica, eucarestia e impegno sociale. Nel senso che l’uno include l’altra e uno include la coerenza dell’altra. Poi nelle situazioni il cristiano sa che deve scegliere non dirò il male minore, ma il bene maggiore possibile».

Questo è stato il primo Sinodo di Benedetto XVI da papa. Si nota un suo modo specifico di parteciparvi?

«Tre cose ho colto. Per primo, questa ora di dibattito quotidiano, di libero confronto tra i padri, che voleva togliere ingessatura all’andamento dei lavori e che mi pare abbia colto notevole successo. Secondo, il suo intervento libero, a sorpresa, un giorno, quando ha parlato a braccio, intervenendo come un padre sinodale, certo portando tutta la sua dottrina di teologo e di prefetto per vent’anni della Dottrina della fede. Terzo, il modo – mi dicono– di stare dentro l’aula, cioè l’attenzione religiosa che dà ad ogni intervento, l’assoluta concentrazione con cui segue il dibattito, il suo presentarsi con la cartella in mano come tutti i sinodali. Sono pennellate, ma che dicono di uno stile: di una Chiesa che ormai ha imparato la sinodalità e si dà Papi che sono figli non solo del Concilio ma anche dei Sinodi».