Toscana

Speciale 30° Georgofili: nell’«Adorazione dei pastori» la storia di una ferita aperta

Un fragore sordo scosse trent’anni fa la notte di Firenze. Ne seguirono morti e rovina. Insieme a uno sgomento cupo; perché nessuno era preparato a una tragedia tanto grande, progettata per fare male. Cinque vite spezzate. Fiori recisi perché cresciuti dove la falce doveva mietere altro. Vittime fortuite; eppure ora, per tutti noi, simbolo del sacrificio degl’innocenti. Loro; che furono fra le poche luci d’una stagione buia.

Fummo chiamati, noi della direzione d’allora, subito dopo l’esplosione. E arrivammo con difficoltà in via della Ninna. Desolato fu lo spettacolo che ci si presentò al piano della Galleria. La luce delle fotocellule saliva livida dal basso delle strade, e sui muri ingigantiva le ombre di figure in transito e di ferri ritorti. Nella caligine baluginavano, a terra, soltanto pezzi di vetri deflagrati. La finestra, stretta e lunga, che correva orizzontale poco sotto il soffitto della stanza di Sebastiano del Piombo (affacciata sulla via dei Georgofili), schiantandosi, aveva straziato la Morte di Adone. La sua solida cornice dorata restava a riquadrare soltanto il bianco d’un muro scheggiato dai detriti: la grande tela di Sebastiano, umbratile e soave (peraltro da poco mirabilmente uscita da un restauro sensibile), pareva ridotta a un miserevole brandello, che dal telaio s’adagiava ormai sull’impiantito.

A ogni passo si rinnovava lo sgomento d’una perdita; che sovente, per la notte che ormai era entrata anche nei nostri cuori, pareva irreparabile. E invece, grazie a Dio, anche quella tela fu mirabilmente recuperata, come se il disegno scellerato e vigliacco della mafia non si fosse compiuto.

Imboccammo a tentoni lo scalone che porta al corridoio vasariano; ma subito, arrivati al pianerottolo dov’era esposta l’Adorazione dei pastori di Gherardo delle Notti, ci avvedemmo dei guasti terribili patiti dalla tela caravaggesca, che per l’appunto occupava tutta la parete piccola dirimpetto alla finestra che dà – essa pure – su via dei Georgofili. Con la sua taglia riempiva tutta la campitura rettangolare, scandita da lesene di pietra serena. E lì, quella notte di fine maggio, il vento furioso scatenato dall’esplosione sbatté la stoffa sul telaio, come fanno gli uragani con le vele. Il colore che riuscì a resistere allo scotimento dovette subire anche la violenza abrasiva della polvere e dei frantumi sparati su dal vorticoso spostamento d’aria. E l’alta «salvadora» rimase a incorniciare una balla di iuta, qua e là chiazzata d’ombre nere; mentre sull’impiantito giaceva, fina come la sabbia, la cromia grattata.

La tela, la mattina dopo, fu distesa, con la delicatezza che tocca alle spoglie fragili d’un cadavere, nell’ambiente vasto dove a quel tempo erano esposte le tavole leonardesche. E fu immediatamente velinata, mentre ancora acre si respirava l’odore della notte. Fu trasportata poi nei depositi per lasciar campo a quelle opere cui un intervento celere sarebbe di sicuro risultato più utile. Nei giorni e nelle settimane che seguirono, restauratori di differenti generazioni misero mano a lavori che hanno consentito il recupero integrale di quasi tutti i dipinti danneggiati. E nel rapporto quotidiano d’operatori e storici dell’arte quasi una scuola di metodo ne sortì. Da allora, però, sempre l’Adorazione dei pastori era stata messa nel novero dei quadri perduti.

La tela rimase nei depositi della Galleria, protetta dalle carte, fin da subito pietosamente apposte, perché almeno il supporto non avesse a patire d’ulteriori strappi. Ma dallo schermo scialbo delle veline trapelavano, ancorché a fatica, forme indistinte e tracce di cromia. Sicché ne progettai il restauro, che certo avrebbe restituto soltanto poetici lacerti; sufficienti però a serbare memoria dell’evento tragico capitato agli Uffizi.

Per questo pensai che la pala meritasse di tornare comunque nel luogo dove l’aveva colta l’esplosione, e che dovesse tornarvi accompagnata dalle parole di chi – Mario Luzi – avrebbe saputo con una lirica dar vita al riscatto: una specie di monito morale, dunque; o, comunque, di prova lampante dell’ancipite natura umana; ch’è distruttiva, e però anche amorosamente portata a risanar le piaghe; anche quelle che da sola s’infligge. E Luzi accolse l’idea d’incidere sulla pietra serena d’una lapide alcuni versi della poesia da lui scritta per l’attentato, concedendomi addirittura la libertà di qualche taglio: «Sia detta a te, Firenze, / questa amara devozione: / città colpita al cuore, / straziata, non uccisa / … / Ti soccorra la tua pietà antica, / ti sorregga una fierezza nuova».

Un monito cui, nel ventennale della bomba di mafia, volli che s’affiancasse una statua di bronzo dorato di Roberto Barni, I passi d’oro. Quell’uomo, che si leva a una ventina di metri dal suolo sulla parete esterna degli Uffizi più toccata dal furore dello scoppio, vuol farsi figura di un’aspirazione a staccarsi da terra, a incedere, a guardare avanti e in alto. Ritto sulla lama sporgente dal muro, non se ne sta immoto, ma allunga il passo, portando con sé (anzi, su di sé) cinque piccoli simulacri umani: anìmule delle persone travolte dalla crudeltà vile della mafia. Incede, dunque, ma non dimentica il sacrificio. Se ne fa piuttosto conforto per il suo cammino. Quieto, ma risoluto.

*all’epoca nella direzione degli Uffizi