Cultura & Società

Tatuaggi: moda recente di un’arte antica

Una non vetusta enciclopedia definisce il tatuaggio come una pratica diffusa presso molte popolazioni di cultura inferiore. Non è esatto: lo si vedeva anche in passato addosso a gente delle nostre zone, come i marinai, sia pure con motivazioni specifiche e in misura limitata. A parte il concetto di civiltà, che non condividiamo più, il testo dice una verità: che da noi fino a qualche decina d’anni fa quest’uso era poco diffuso e dai più ritenuto una cosa superata di cui in genere non si sentiva il bisogno.

Improvvisamente, dagli anni Sessanta Settanta il tatuaggio è comparso, soprattutto nei giovani, in forma quasi epidemica e in quantità sorprendente. Inutile chiedere a chi lo porta la ragione di tale adozione: ne vengono fuori motivi esili, che fanno capire come il fatto debba ascriversi o a comportamenti gregari, mode, conformismo, oppure a motivazioni inconsce che devono essere forti e profonde, a giudicare dall’entità del fenomeno. Questo è stato imprevisto tanto che ancora manca un disciplina giuridica e c’è incertezza per quanto riguardale controindicazioni.

Nell’antica Roma Costantino lo vietò sul volto, ma i cristiani lo praticarono a lungo perché il corpo fosse riconosciuto comunque e avesse sepoltura in terra consacrata. L’Islam lo proibisce, ma permette l’henna, che è una forma temporanea. Nel Medio Evo fu proibito da Papa Adriano I nel 787.

Presso i santuari, soprattutto quello di Loreto fino alla metà del secolo scorso, i monaci praticavano tatuaggi con simboli religiosi che attestavano una penitenza imposta o un voto assolto e la pratica. Molte personalità furono tatuate come Winston Churchill.

Natura del tatuaggio. Tatuaggio è una parola che deriva dall’inglese tattoo, adattamento del termine polinesiano tatau che indica la nota deformazione della pelle del corpo umano. Passata attraverso il francese, risale alla fine del secolo XVIII, diffondendosi nel XIX.

È una pratica che appartiene a ogni zona del mondo, civilizzata e arretrata, e secondo i reperti, interpretando i segni di raffigurazioni preistoriche, risale ai primordi della civiltà. Era conosciuto in Europa nell’età del bronzo, nella civiltà egea, testimoniato dal ritrovamento di figure e punzoni per tale operazione.

Consiste nell’alterazione artificiosa d’un tessuto cutaneo imprimendovi un segno permanente che con gli anni tende a sbiadire. Vi si disegnano così macchie, simboli, disegni monocromi o vistosamente colorati, per lo più nomi, date, cuori trafitti, iniziali, stemmi, animali, croci santi. Si riteneva finora che non provocasse effetti secondari, sintomi, allergie o disturbi, ma proprio in questi giorni ricerche e scoperte hanno rivelato il contrario e sono allo studio verifiche e conferme. Il tatuaggio, se non è di entità consistente, può essere rimosso, ma richiede un trattamento chirurgico, necessario quando produce allergie.

Può essere anche accidentale, dovuto all’introduzione nella pelle di particelle estranee. Non c’è una ragione specifica o una finalità pratica comunemente riconosciuta per cui si ricorre a questo processo: può assumere diversi significati o assolvere varie funzioni secondo i luoghi, i tempi, le culture, le comunità nelle quali si usa. Il positivista Cesare Lombroso (1836-1909) teorizzò che fosse il segno di una personalità delinquenziale e per qualche tempo cadde in discredito, ma tornò con le esplorazioni dei popoli dell’Oceania.

La pratica. Il tatuaggio per puntura non altera la superficie della carnagione ed è praticato in genere da coloro che hanno la pelle bianca in cui si evidenziano i colori. Si realizza con un ago con cui si inseriscono nel derma sostanze di vario genere che ne alterano il colore naturale: cinabro per il rosso, sali di cobalto per il blu, cromossido per il verde.

L’altro tipo di tatuaggio è fatto per cicatrice (scarnificazione) e provoca consistenti alterazioni della pelle: è più visibile e praticato da chi ha pelle scura. Si deforma la cicatrizzazione d’una ferita praticata applicandovi argilla, carbone o altre sostanze, in modo che l’alterazione resti permanente. Praticata sul viso tale operazione può portarlo all’aspetto d’una vera e propria maschera rituale.

Altre pratiche, chiamate con questo nome, sono improprie, come la pittura del corpo con coloranti che si asportano dopo cerimonie, periodi, occasioni particolari in cui tale acconciatura è richiesta. Così altri tatuaggi, fatti in modo che scompaiano in un certo periodo di tempo, non rispettano un requisito essenziale dell’usanza che vuole un’identificazione perenne del corpo con la figura, i disegno che sono stati impressi.

Viene naturale il riferimento al marchio, per la forma e per l’impossibilità della rimozione, per cui le caratteristiche di questo si riverberano un po’ su quello. Gli schiavi romani erano marchiati con le iniziali del proprietario e i ladri col timbro a fuoco sulla fronte. Col marchio d’infamia erano segnati coloro che si erano macchiati di tradimenti, delitti, oppure sugli schiavi per precluderne la fuga: segno che li perseguitava fino all’ultimo respiro.

Il tatuaggio è comunemente una scelta volontaria, ma assume aspetti inquietanti quando si tratta di segni d’appartenenza imposto da un gruppo di congiurati, da società segrete, oppure contrassegna affiliati a gruppi eversivi e malavitosi, per cui si trasforma per lui in un’eterna condanna. Così, praticandolo in un punto segreto del corpo, si dice operasse la società segreta delinquenziale, la celebre Mano Nera che uccise Petrosino.

I significati e le funzioni comuni. Anche queste marginali notazioni bastano per rilevare che il tatuaggio non si può semplicemente considerare come un aspetto della cosmesi, quale l’acconciatura dei capelli, la barba, la pettinatura, la colorazione delle unghie, delle labbra, ornamenti o altre alterazioni fisiche.

Infatti questa pratica collude con aspetti fondamentali e delicati d’una personalità che, in qualunque modo l’intenda, gli affida il messaggio fondamentale di quello che, anche inconsciamente, pensa di se o crede, o vuole essere.

Vi è come primo elemento il desiderio di distinguersi dal numero dei più, qualificarsi come essere in qualche modo diverso (e implicitamente superiore) di quello tipico della folla anonima. Così il detentore del tatuaggio si sente se non altro diverso, ma non uguale alla qualitas della massa: nessuno cerca di segnalarsi come di seconda scelta.

In secondo luogo vuole dichiarare questo fatto, con forza proporzionale all’esposizione della parte visibile del corpo dove lo pratica. Se dichiara d’appartenere a una società, un gruppo, una setta prenderà anche la forza, si approprierà anche delle qualità e della protezione dei propri soci.

Il tatuaggio d’appartenenza a un gruppo mostra anche il bisogno dell’adepto di manifestare come personali le capacità riconosciute alla sua setta ottenendo prestigio. Comunemente però quando si sa di possedere particolari qualità, non si sente il bisogno di dichiararle.

Vi sono tatuaggi di guerrieri volti a impaurire e sono per lo più maschili tatuaggi sessuali per lo più femminili sono volti all’esaltazione di doti fisiche e alla seduzione; tatuaggi d’immedesimazione magica che, esibendo l’immagine del lupo, del leone, del serpente indicano il possessore dotato delle facoltà di tali animali. Quelli apotropaici che allontanano forze malefiche seguono la logica delle antiche galgole etrusche, fatte a forma di gorgoni, o le antefisse medievali.

Resta comune il fatto che ognuna di queste figure ha sempre una decisa componente estetica e ornamentale.

Il tatuaggio dei nostri tempi. A differenza del tatuaggio quale era inteso un tempo, quello che si vede praticato ai nostri giorni lo potremo chiamare di tipo individuale. Infatti si nota nel fenomeno la mancanza di linee direttrici, di principi comuni, di concetti unificanti: ognuno sceglie quel che vuole, secondo il proprio gusto, lo stato d’animo del momento in cui si trova. Diversamente, in passato, soprattutto i primitivi e i selvaggi hanno seguito criteri di riferimento a un determinato atteggiamento verso la vita, una religione, un gruppo sociale, comunque un processo d’identificazione con un gruppo umano al quale uno vuole appartenere perennemente come perenne è la durata del segno: tribù, cristiano, pellegrino, combattente, affiliazione, mestiere. Così l’immagine impressa di un gruppo totemico, ovvero il muso dell’animale capostipite della tribù, s’inquadravano magicamente in un sistema solidale di forze universali e il singolo assorbiva la forza e le virtù dell’animale sacro e si sentiva in tale dimensione.

Questo aspetto è vicino alla funzione apotropaica del tatuaggio almeno nei confronti della fiera la cui immagine sta sulla sua pelle. In questi vari sensi era ritenuto da noi una cosa ormai superata, una sopravvivenza destinata a sparire. Con sorpresa non è stato così. Per quanto si possano vedere i limiti di questo fenomeno, la sua vitalità, la sua estensione e la progressiva diffusione indicano che vi sono serie ragioni nascoste di tale comportamento.

Storicamente sì inserisce nel movimento più ampio e profondo della crisi dell’Occidente che, conscio di un invecchiamento delle sue forze vitali, è andato alla ricerca di una rivitalizzazione dello spirito mediante l’assorbimento di manifestazioni più feconde, più forti e spontanee, espresse da popolazioni non ancora avvilite, devitalizzate da processi di produzione mortiferi come la catena di montaggio e l’ufficio, modi di vita imposti e ripetitivi quali sempre più sono i nostri.

Dalle foreste, dalle savane e dai deserti è arrivata la nostra nuova musica violenta e ritmata, la pittura ha attinto sia ai primitivi dei passati millenni sia alle produzioni dei selvaggi contemporanei e così la scultura e altre arti.

Anche l’antropologia ha studiato nei mondi tribali le strutture elementari che stanno a fondamento delle nostre organizzazioni umane e la poesia ha riservato grande attenzione a canti e saghe di comunità ancora non alfabetizzate e le varie discipline come la psicologia e la spiritualità l’hanno seguita.

Il tatuaggio forse ha preso ingenuamente le mosse da questa corrente pensando di recuperare quello che la disgregazione dei grandi istituti sociali ha tolto all’individuo. Se è così l’operazione non avrà grandi risultati: sradicare un istituto dal suo terreno, dall’ambiente e dalle sue correlazioni significa devitalizzarlo. Anche lo yoga è rimasto una pratica fisica o poco più. Comunque rimane come tentativo, palliativo. In fondo anche il placebo ha i suoi effetti.

L’individuo, nelle macerie della famiglia, della società e di tutto il resto, scrive se stesso su se stesso credendo forse di trovare un’identità, non accorgendosi che è un atto di cui può essere capace solo Dio: Sono colui che è. Il tramonto delle istituzioni forti si è accompagnato con il potere dei media che hanno rivelato la loro miseria e la precarietà di valori che non danno più affidamento e l’essere sperduto mostra il suo tatuaggio come una bandiera che intorno, non solo non ha l’ambiente magico che lo ha generato, ma nessuno ormai lo capisce, per cui lo deve spiegare e spesso neanche lui da cosa dire.

Pare dunque che il tatuaggio, più che un gesto d’affermazione, un tentativo d’identificarsi in qualcosa di vero, autentico che ha una radice, sia una flebile richiesta d’aiuto, degna di rispetto perché è un’invocazione alla vita.

Dalle estemporanee interviste sul campo ho ricavato solo una vera ragione addotta dai tatuati: il bisogno di una propria individuazione, il grido di chi sta annegando in un lago morto di uniformità e d’indifferenza. Appare così una valle di Giosafath, cimitero di ogni speranza, dove si è perduto ogni nome e il vento disperde chi sa dove i fogli dell’anagrafe universale: sopra la sterminata torma si leva un braccio nel nulla e mostra al nulla l’immagine impressa, nera e sgomenta d’un giaguaro per dire: – Quella meravigliosa creatura ero io.