Cultura & Società

Toscani di mare, i grandi viaggiatori/1

DI FRANCESCO GIANNONI

Da Verrazzano, il corsaro amante della culturaIl 17 aprile 1524 Giovanni da Verrazzano penetrò nelle acque della baia di Hudson dove in seguito coloni olandesi avrebbero fondato New York. Di questo importante personaggio della storia delle esplorazioni parliamo con Luigi Giovanni Cappellini, presidente del Centro studi storici Verrazzano, da lui fondato nel 2002. Cappellini ci racconta che, quando nel 1992 gli Stati Uniti festeggiarono i cinque secoli della scoperta dell’America, le celebrazioni furono accolte con freddezza dai nativi americani: com’è noto, la colonizzazione successiva alla scoperta di Colombo aveva provocato stragi, rapine e saccheggi causando la scomparsa di intere civiltà che avevano raggiunto livelli anche di grande raffinatezza.

Quella freddezza, però, non coinvolse il Verrazzano, «apprezzato anche dai più radicali difensori delle radici indigene dell’America» per il suo comportamento, aperto e rispettoso nei confronti degli «indiani».

Nacque alla fine del XV secolo nel castello di Verrazzano presso Greve in Chianti, studiò a Firenze e risentì del neoplatonismo di Marsilio Ficino. Partecipò della più alta cultura del suo tempo e fu per Cappellini un «compagno degnissimo delle migliori menti rinascimentali». La Firenze del tempo primeggiava non solo nelle arti figurative ma anche negli studi scientifici, matematici, geografici: lo stesso Colombo navigò tenendo presenti gli insegnamenti del fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanelli, matematico, astronomo e cartografo (ecco perché ci sono tanti toscani nell’elenco dei navigatori ed esploratori dell’epoca).

Verrazzano entrò al servizio del re di Francia Francesco I per il quale compì tre spedizioni nel «nuovo mondo» finanziati in buona parte da mercanti fiorentini che vivevano in Francia, principalmente a Lione. Giovanni cercava anche lui una via alternativa per l’oriente, per il mitico Catai, e le finalità di quei viaggi erano economiche e mercantili.

Ma il profilo intellettuale di Giovanni (davvero di grande spessore) e la sua apertura mentale emergono dalla sorprendente lettera-relazione del luglio 1524 con cui il navigatore informava Francesco I sul viaggio effettuato lungo la costa americana dalla Carolina del Sud alla Nuova Scozia.vGiovanni non fu un cinico mercante o un truce condottiero: la lettera (scritta in uno stile molto attuale) è una «sorta di trattato di antropologia ante litteram» che cerca di illustrare e di capire «con totale assenza di pregiudizi». La natura del nuovo mondo è caratterizzata da «belle campagne e pianure ricoperte da grandissime foreste (…) con alberi di così svariati colori, tanto belli e piacevoli a guardarsi che è difficile dirlo a parole. Questa terra è ricca di animali (…), di laghi e di stagni d’acqua viva con varie specie di uccelli adatti a soddisfare senza difficoltà tutti i dolci piaceri della cacciagione».

Fisicamente parlando gli indigeni «sono ben proporzionati, di statura media, qualche volta superiore alla nostra (…). Hanno gli occhi neri e grandi, lo sguardo attento e vivace. Non sono dotati di una grande forza fisica ma sono di intelligenza acuta». Le loro donne «sono altrettanto belle e ben formate, molto gentili, eleganti e di aspetto gradevole. I loro costumi e la loro continenza femminile sono quanto di meglio si può chiedere a una creatura umana». I capi degli indigeni sono definiti senza mezzi termini «re».

Verrazzano si sofferma a parlare delle case dei nativi (se «avessero attrezzi perfezionati come quelli che noi abbiamo, costruirebbero edifici magnifici») e dei loro gusti: i gioielli sono in rame «che essi stimano più dell’oro. (…) Tra tutti i metalli, anzi, l’oro è quello di minor valore perché di colore giallo e il giallo lo aborriscono. I colori più amati sono l’azzurro e il rosso». Gli indigeni sono uomini «molto generosi. Tutto quello che hanno sono disposti a darlo. Stringemmo con loro una forte amicizia».Mentre Giovanni da Verrazzano scriveva queste parole, Francisco Pizarro e Hernán Cortés distruggevano gli imperi inca e atzeco. Galeotto Cei, un’avventura dopo l’altraRispetto al Verrazzano, Galeotto Cei mostra un altro atteggiamento nei confronti dei nativi del nuovo mondo. Di questo mercante-esploratore abbiamo parlato con Francesco Surdich, docente di Storia delle esplorazioni e delle scoperte geografiche alla Facoltà di lettere di Genova.

Galeotto nacque a Firenze nel 1513 da famiglia di un certo rilievo nell’ambiente mercantile e politico della città del giglio: alcuni Cei avevano ricoperto cariche pubbliche anche importanti. Casata antimedicea, all’inizio del ‘500 venne sconfitta ed esiliata. In un primo tempo fu a Lione, dove Galeotto fece pratica presso il banco dei Salviati. Successivamente si recò in Spagna dove da tempo vivevano colonie di fiorentini che si erano resi promotori di numerose spedizioni fra cui quella di Colombo. A Siviglia Galeotto costruì una discreta fortuna.

Udendo storie straordinarie sulle «Indie occidentali», anche al fiorentino venne voglia di tentare la fortuna in quelle terre favolose, attratto come molti dalle possibilità di facili e rapidi guadagni in quello che era ritenuto l’«Eldorado»: già Colombo nella sua relazione del primo viaggio nominava l’oro per ben 130 volte. Come dice Surdich «era nato il mito americano».

Galeotto partì. Prima fu nei Caraibi ove rimase per 14 anni, poi si recò in Venezuela e Colombia che fu tra i primi a descrivere. In questo periodo «infilò un’avventura dopo l’altra: era infatti un’area turbolenta, per i conflitti che insorgevano fra gli stessi europei». Nel 1553 rientrò a Siviglia e, nel 1560, dopo che Cosimo I gli aveva concesso la grazia, rimise piede a Firenze dove ricoprì qualche carica pubblica. Morì nel 1579.

A differenza di altri mercanti che scrivevano solo lettere commerciali, Cei ha lasciato un resoconto, «Viaggio e relazione delle Indie (1539-1553)» che, rimasto inedito, finì curiosamente al British Museum di Londra. Surdich lo ha ritrovato e ne ha curato la pubblicazione.

Il «Viaggio» è assai colorito e vivace: Cei usa un toscano infarcito di parole castigliane oltre che di termini indigeni. Pur incompiuto, è un testo ricco e dettagliato che, oltre a tematiche mercantili, tratta anche di aspetti geografici, tradizioni, usanze che magari con il tempo si sono perse o trasformate. E quando scrive di un argomento, perché la spiegazione risulti più chiara e completa, correda il testo con disegni fatti da lui; questo è inconsueto, originale: per esempio parlando della musica locale, ci lascia forse il primo disegno delle maracas.

Nei confronti degli indigeni Cei è curioso e percepisce aspetti della loro società e della loro mentalità, che altri non sempre riescono a cogliere. I giudizi di merito, però, sono fortemente improntati all’eurocentrismo: «rispetto alla cultura europea quella nativa è nettamente inferiore» (per esempio la musica è gutturale non è melodiosa né armoniosa, così come la lingua), e il concetto di fondo che ispira le sue considerazioni è purtroppo ancora molto attuale: più l’altro è diverso, più è inferiore.

Giovanni il FiorentinoIl 24 febbraio 1525 a Pavia, Francesco I fu sconfitto dagli spagnoli. E da quel momento di Giovanni da Verrazzano si perdono un po’ le tracce.

Ci sono voci secondo cui il grevigiano cercò di farsi accreditare alla corte d’Inghilterra per continuare a fare i suoi viaggi e le sue esplorazioni senza entrare al servizio dei nemici spagnoli (e questo rende merito alla sua «deontologia professionale»).

C’è un’altra ipotesi che ha del romanzesco. Sparito il Verrazzano, sul palcoscenico del mare compare la figura di un corsaro: Giovanni il Fiorentino. Guarda caso. Per certi studiosi i due Giovanni sono la stessa persona. Il Fiorentino avrebbe fatto guerra «di corsa» per conto dei francesi a danno delle navi spagnole che, cariche di ricchezze, provenivano dal nuovo mondo. E avrebbe intercettato addirittura la nave che, inviata da Cortez a Carlo V, trasportava il favoloso tesoro di Montezuma, poi svanito nel nulla.

La carriera del Fiorentino finì con la cattura da parte degli spagnoli che lo impiccarono a Cadice.

Cappellini stenta a credere a questa ipotesi: «lo vedo male come corsaro, conoscendolo come raffinato umanista; lo vedo male penzoloni da una corda. D’altra parte le voci ci sono e sono autorevoli».

Volendo fare un po’ di romanticismo, a Cappellini piace pensare che, data la sensibilità e l’attenzione dimostrata da Giovanni verso gli indigeni e dato che il tesoro di Montezuma è stata la somma di tutte le razzie effettuate nel nuovo mondo, la cattura del mitico tesoro sia stata una sorta di vendetta compiuta da Giovanni a vantaggio degli indigeni ferocemente spogliati delle loro ricchezze: anche in questo Giovanni, se fu lui il corsaro, fu uomo di cultura. La storiografia classica, invece, racconta che Verrazzano fu ucciso e divorato dai cannibali in un’isola dei Caraibi nel 1528, secondo la testimonianza del fratello Girolamo che assisté alla drammatica scena, come riporta lo storico dell’epoca Paolo Giovio.