Toscana

Università toscane, inflazione di sedi e di corsi

di Federico Fiorentini

«Stiamo lavorando per supportare le Università toscane in un necessario percorso di innovazione che inizia subito e ci porterà, insieme, all’Università 2030»: così si è espressa Stella Targetti, vicepresidente di Regione Toscana con delega proprio ai rapporti con le Università, concludendo la presentazione del rapporto Irpet sul sistema universitario in Toscana, avvenuta mercoledì 1° dicembre – giorno successivo all’approvazione alla Camera del disegno di legge promosso dal ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini – presso l’auditorium fiorentino di Santa Apollonia.

Per l’Irpet l’Università toscana è «ipertrofica, lenta, poco efficiente»; una sorta di «fabbrica che ancora oggi impiega troppo tempo per realizzare il proprio prodotto (i laureati), organizzata in modo inefficiente (eccessiva proliferazione dei corsi e delle sedi decentrate) e con un basso tasso di produttività (troppi gli abbandoni)». Nel dettaglio, la pubblicazione analizza dati che vanno dall’anno scolastico 2000/2001 (ultimo del «vecchio ordinamento» quadriennale) al 2007/2008, mostrando i mutamenti provocati dall’introduzione del «cosiddetto 3+2», la divisione della carriera universitaria in due tranche. Come ha sottolineato il direttore Irpet Nicola Bellini, il rapporto intende «offrire un contributo al dibattito che attualmente sta infervorando addetti ai lavori e opinione pubblica, offrendo dati e fotografando situazioni, cercando quella “evidenza empirica” cara agli anglosassoni. Per quanto riguarda l’interpretazione di questi fatti e le loro implicazioni possiamo solo fornire dei suggerimenti, in modo da semplificare i processi decisionali delle istituzioni politiche. Abbiamo inoltre applicato a questi dati gli strumenti dell’analisi economica, consapevoli comunque che l’università non può essere trattata esclusivamente nella sua dimensione industriale».

Il rapporto è stato illustrato da Nicola Sciclone (dirigente responsabile dell’Area di ricerca Irpet), il quale ha affermato che «l’università è lo specchio più fedele della situazione dell’intero paese: i suoi problemi riflettono quelli socio-economici dell’Italia, a iniziare dalla bassa produttività, l’inefficienza organizzativa, lo spreco di risorse, la scarsa innovazione e l’assenza di incentivi».

Il primo dato a emergere è la leggera decrescita delle immatricolazioni nelle tre Università pubbliche toscane (Firenze, Pisa, Siena), passate dalle circa 23 mila del 2004/2005 alle 21 mila delle rivelazioni più recenti (2008/2009), a conferma della fine dell’impennata di iscrizioni che aveva caratterizzato gli anni immediatamente successivi alla riforma. Un terzo dei nuovi studenti italiani non è residente in Toscana: le regioni più rappresentate sono Campania, Calabria e Sicilia. Gli stranieri – viceversa – rappresentano solo il 4,3%, a riprova della mancanza di una dimensione internazionale nel mondo universitario italiano, sia per quanto riguarda docenti che discenti. Le ultime rilevazioni mostrano che le facoltà predilette dalle matricole sono Economia (14,3%), Lettere (13,2%) e Ingegneria (12,5%). Durante il periodo preso in esame sono incrementate le iscrizioni a facoltà scientifiche e tecniche (+17%) a fronte di un -16% in quelle umanistiche.

Nell’arco temporale 2000/2008 un quarto degli studenti immatricolati al primo anno o si è ritirato (18%) o non ha acquisito alcun credito (cioè non ha sostenuto alcun esame, l’8%). I tassi di abbandono più bassi provengono dalle facoltà di Medicina e Architettura, a riprova dell’efficacia dell’accesso a numero chiuso in questo frangente. Dopo cinque anni dalla prima immatricolazione solo il 37% degli studenti ottiene la laurea triennale (dato poco positivo tenendo conto che viene concesso un margine di due anni) e appena il 6% quella quinquennale (poco più di un ventesimo degli iscritti, dunque, conclude il proprio curriculum universitario nei tempi preventivati). Il risultato è un’età media di 24 anni per i laureati di primo livello, due in più del previsto. Un’articolata analisi statistica rivela che il passaggio al sistema 3+2 non ha ottenuto gli effetti sperati per quanto riguarda il numero di diplomati: la probabilità di conseguire una laurea «completa» è anzi diminuita del 5% rispetto a quando vigeva il «vecchio ordinamento».

Se dal 2000 al 2008 gli iscritti sono aumentati del 10%, il numero di corsi di laurea del 231%. Una proliferazione accompagnata dalla moltiplicazione delle sedi (Follonica, Borgo San Lorenzo, Vinci, San Giovanni Valdarno…) e che riguarda soprattutto i corsi di laurea specialistica (il 40% del totale), i cui iscritti, tuttavia, sono meno di dieci nell’80% dei casi, e nel 60% non arrivano a cinque. Il rapporto Irpet sconfessa inoltre la validità della laurea «breve» come titolo di studio autonomo: il 60% dei laureati al triennio si iscrive alla specialistica, con punte dell’88% a Ingegneria e del 72% a Economia, proprio due fra le facoltà che dovrebbero avere il rapporto più diretto con il mercato del lavoro.

Ultimo argomento toccato il «rendimento» effettivo della laurea, «molto inferiore alle attese» non solo per quanto riguarda il tasso di disoccupazione (pressoché equivalente a quello dei non laureati): fino a 35 anni il salario lordo orario di un laureato è addirittura inferiore a quello di un coetaneo privo dello stesso titolo studio. Il «plusvalore» remunerativo della laurea è infatti «differito nel tempo», soprattutto per quanto riguarda medici e ingegneri. Infine il 51% dei laureati under 35 è «sottoinquadrato», ossia svolge un’attività lavorativa «inferiore alle attese». Tale percentuale tocca il 64% per le facoltà umanistiche, i cui ex-studenti hanno comunque una carriera professionale inadeguata alle competenze nel 47% dei casi. Il ricercatore Sciclone decide di concludere con una nota di ottimismo sulla situazione toscana, tutt’altro che esaltante ma comunque più rosea di quella nazionale: «Non solo i tassi di laurea triennale e magistrale sono fra i più alti d’Italia, ma il consistente aumento di iscritti alle facoltà scientifico-tecnico e il conseguente decremento di quelli alle umanistiche riflette una presa di coscienza delle necessità del sistema produttivo».

L’incontro è proseguito con un dibattito prolungato cui hanno partecipato professori e rettori, oltre alla già citata Stella Targetti, alla quale i giornalisti presenti hanno chiesto un parere sul ddl Gelmini: «Sicuramente – ha risposto – ci sono elementi positivi, ma anche numerose incertezze, come quelle legate ai ricercatori, tenuti sostanzialmente otto anni in prova senza garanzie: un meccanismo che a prima vista sembra incrementare ulteriormente la dimensione del precariato. I più preoccupati sono evidentemente gli studenti, la cui contestazione evidenzia comunque un sentimento di disagio profondo, che non è limitato alle novità introdotte dalla riforma». Per quanto riguarda la ricerca presentata, secondo la vicepresidente della Regione, «al di là delle criticità emerse, l’Irpet fotografa una situazione regionale meno drammatica rispetto al resto del panorama italiano. Naturalmente siamo consapevoli della necessità di migliorare, e questo rapporto rappresenta infatti l’inizio di un percorso di sostegno della Regione nei confronti degli atenei toscani».

La frammentazione dei corsi di laurea Dal rapporto emerge la forte frammentazione dei corsi di laurea toscani (dal 2000 al 2008 gli iscritti sono aumentati del 10% ma i corsi del … 231%). Con un risultato ovvio: l’80% dei corsi di laurea specialistica ha meno di 10 studenti (il 60% meno di 5).

Poco appetibile la laurea triennale. Troppe le sedi distaccate. Troppi gli abbandoni (18 studenti su 100 abbandonano al primo anno; entro il secondo lasciano altri 25; dopo 5 anni raggiungono la laurea di primo livello solo 37 su 100 e appena 6 quella di secondo livello).

A tre anni dalla laurea il 77% dei giovani ha una occupazione (ma se quasi l’88% appartiene all’area «tecnica», a trovare subito lavoro soffrono molto – sono appena il 54% – i laureati nell’area «giuridica»). Fino a 35 anni un laureato guadagna meno di un diplomato. È solo dopo che l’investimento in istruzione è destinato a essere meglio retribuito.

Dentro la «fabbrica della conoscenza» Tutto da leggere il capitolo sull’offerta didattica, secondo cui oltre il 60% dei corsi attivi nel biennio specialistico ha meno di 5 studenti immatricolati. Come se l’Università, invece di rispondere a una domanda effettiva, fosse chiamata ad accontentare le esigenze della struttura. Dove non sta male, l’Università toscana rispetto alle altre italiane ma anche su dimensione europea, è in quello che il rapporto chiama la «fabbrica della conoscenza». Nei dati sulle pubblicazioni scientifiche siamo, fra le regioni d’Europa, al ventunesimo posto ma saliamo al diciassettesimo se raffrontiamo le pubblicazioni con il numero degli abitanti.

Il nostro buon posizionamento rispecchia la presenza, in Toscana, di una infrastruttura di ricerca articolata: oltre ai 3 atenei di Firenze, Pisa e Siena – che fra ordinari, associati e ricercatori contano oltre 5.100 addetti alla ricerca – e alle scuole di formazione superiore (altri 300 ricercatori), hanno sede in Toscana una trentina fra istituti, sezioni e centri del Cnr concentrati soprattutto tra Firenze e Pisa (rispettivamente 1.100 e 550 addetti alla ricerca).

Riguardo le borse di studio, in Toscana circa 6 studenti su 100 ne hanno una (5 a Firenze, 7 a Pisa, 8 a Siena): in termini assoluti si tratta di circa 10 mila studenti. Da notare che qui c’è una bella «luce»: le richieste degli studenti sono, in Toscana, soddisfatte al 100%. Ad avere le «borse» in maggioranza sono donne, diplomati alle medie superiori con una votazione media maggiore degli altri studenti, provengono più da istituti tecnici professionali che dai licei, in una quota molto elevata hanno conseguito il diploma all’estero, si iscrivono soprattutto a «Lettere e Filosofia» e ad «Economia».

E se la Regione collaborasse al governo degli Atenei?La categoria delle «luci» che si contrappongono alle «ombre» è quella più fedele nel tentativo di sintetizzare il corposo – e coraggioso – «rapporto 2010» curato da Irpet sul sistema universitario toscano. Presentato in un luogo-simbolo (all’epoca della contestazione e della post contestazione sessantottina, in Sant’Apollonia, c’erano diversi servizi universitari, fra cui una mensa che – come ha ricordato con nostalgia Giuseppe Catalano, oggi docente al Politecnico di Milano e ieri studente universitario a Firenze – il venerdì offriva una carne «così dura» da essere considerata una sorta di «oggetto contundente». Sui muri restano, ancora, antiche scritte di dura contestazione … anticapitalista.

Oggi Sant’Apollonia – che poi era una chiesa dove hanno pregato generazioni di benedettine – è una elegante sala congressuale. Qui è stato presentato il rapporto e la mattina non ha potuto contare sull’ospite più atteso, Alessandro Schiesaro: il braccio destro, proprio per l’università, di Maria Stella Gelmini, non è arrivato.

Un rapporto di Irpet, quello redatto da Nicola Sciclone e presentato da Nicola Bellini, che può legittimare commenti assai distanti («Ma allora ha proprio ragione la Gelmini» titolava la sezione toscana del giornale di famiglia del premier. «Siamo la prima regione italiana per numero di pubblicazioni», contrapponeva la parte toscana di un quotidiano ferocemente antigovernativo. La solita battaglia del bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno o delle visioni strumentali. Ma qui, con oltre 220 pagine fitte di numeri e tabelle, forse la cosa migliore resta quella di leggerselo, il rapporto). Non sarà dunque sembrato fuori luogo il commento di Stella Targetti, assessore toscana proprio ai rapporti con le Università e la Ricerca: la giovane vicepresidente, decisamente più fresca di studi rispetto a tanti altri commentatori o attori della scena politica toscana, un po’ ha stupito con un giudizio – rilasciato ai giornalisti – assai «prudente» sulla riforma Gelmini (certo sbagliata negli strumenti scelti – ha precisato – ma non nella volontà di cambiare un sistema oggi profondamente malato). Ha rilanciato, Stella Targetti, verso un futuro neppure troppo vicino («Stiamo lavorando per supportare le università toscane in un necessario percorso di innovazione, che inizia subito e ci porterà, insieme, a disegnare anche i possibili scenari di integrazione verso l’università del 2030»). E non ha chiuso la porta a una ipotesi – ieri impensabile – in base a cui la Regione potrebbe avere un maggiore ruolo di governo anche nell’Università («ma attenti alla nostra autonomia», ha subito precisato un rettore).

A essere malata, secondo Irpet, non è tanto l’università toscana quanto l’intero sistema universitario nazionale; che non esce bene dalla lente di ingrandimento dell’istituto per la programmazione economica. Sembra quasi di avvertire un’invettiva don-milaniana (ricordate? La scuola come «ospedale che cura i sani» ma «respinge i malati» e «crea differenze a volte irrimediabili») nelle parole del comunicato stampa irpettiano secondo cui l’Università toscana è «ipertrofica, lenta, poco efficiente»; una sorta di «fabbrica che ancora oggi impiega troppo tempo per realizzare il proprio prodotto (i laureati), organizzata in modo inefficiente (eccessiva proliferazione dei corsi e delle sedi decentrate) e con un basso tasso di produttività (troppi gli abbandoni)».

Nei tre atenei e nelle due scuole di eccellenza «abitano» circa 116 mila studenti con oltre 800 corsi di laurea (400 attivi). È università, quella toscana, che attira molti giovani dal Sud (in particolare da Sicilia, Campania e Calabria). Ed è università cui l’Irpet tira le orecchie sotto molti punti di vista, compresa la sua distribuzione territoriale: nei corsi di primo livello sono ben 19 i comuni sede di corsi di laurea e 8 con uno solo. La logica è quella del «laureato porta a porta» che non è molto da «industrial organization». Dove, in tutto il mondo, c’è vera efficienza, non esistono simili atenei «porta a porta» ma si favorisce, al contrario, la mobilità degli studenti (e dei professori) con una «governance» in cui il mondo economico-imprenditoriale è presente e attivo.

Per Alessandro Petretto, presidente Comitato Scientifico Irpet, il sistema universitario italiano è «in una fase di difficile transizione» e in nessun paese industrializzato è immaginabile attuare una riforma universitaria ambiziosa tagliando, contemporaneamente, i fondi. Questa l’accusa più forte alla Gelmini.

In anni di «federalismo», la Regione potrebbe inviare «segnali e incentivi virtuosi» e collaborare nel governo degli atenei? Questa, di Petretto, la domanda che chiude il rapporto. E apre la politica.