Prato

Vescovo Gastone, è l’ora del saluto

Eccellenza, quando fece ingresso in diocesi il 23 febbraio 1992 chiese ai pratesi di impegnarsi per fare «qualcosa di bello per il regno di Dio». Qual è stata la cosa più bella di questi venti anni?«Questa espressione “Qualcosa di bello per il regno di Dio”, che io ho ripreso da un noto titolo di un libro su Madre Teresa, l’ho ripetuta tante volte. In pubblico, agli adulti, ai ragazzi delle Cresime, nei vari incontri. Vuol dire qualcosa di bello, di buono, di utile nel senso più profondo, per gli altri, per il prossimo. Non c’è qualcosa di bello per Dio che non diventi qualcosa di bello per gli altri. Io sono spesso autocritico, ma direi che in questi anni le cose belle sono state più di una. Intanto la gioia di stare in mezzo alla gente, gli incontri con tantissime persone che hanno manifestato apertura e a cui mi sono aperto, l’amicizia con tante persone anche non credenti, che forse attraverso il Vescovo si sono avvicinate alla Chiesa. E poi, naturalmente, i tanti eventi della vita diocesana: dalla visita pastorale, alla missione degli ultimi anni 2008/2010, e in particolare l’avvenimento bellissimo della Peregrinatio Mariae. Ho tanti ricordi gioiosi del tempo passato con la gente, nelle parrocchie, nei vari incontri e ambiti». Lei stesso si è appena definito autocritico, addirittura severo con se stesso. Se dovesse trovare una cosa che l’ha lasciata più scontenta di questo suo episcopato qual è?«La consapevolezza sicura di non essere stato all’altezza in tante situazioni della vita diocesana anche cittadina. Quante omissioni: avrei potuto fare, avrei potuto dire… Le scontentezze però sono poche, sono superate dalla gioia di essere in mezzo alla gente di Prato». In questi anni ha avuto numerose insistenze nei programmi pastorali, nelle linee che ha voluto dettare alla sua diocesi…«Bisogna insistere sulla coerenza dei cristiani con la loro fede, sulla pratica cristiana vera, cioè sulla traduzione nella vita di tutti i giorni dei comandi del Signore, dei valori cristiani, espressione di una vita interiore con Dio. La necessità oggi è urgente: una Chiesa missionaria, un parroco e una comunità che sentono il problema di chi non c’è, che non si rassegnano al dato di fatto, ma cercano attraverso la propria testimonianza e grazie ad attività e iniziative di tornare a rapportarsi a più persone possibile». Parliamo di giovani: Prato è la città più giovane della Toscana. Come portare Cristo alle giovani generazioni?«Ecco, questa è un’insistenza che ho avuto: convincere tutti, nella Chiesa, a cominciare da noi sacerdoti, che uno dei campi privilegiati è quello dei giovani che hanno subito gli effetti del cambiamento sociologico secolare, le distrazioni del benessere. Ai giovani noi dobbiamo consegnare la nostra fede. Questo è possibile con le chiamate al catechismo parrocchiale, ma non basta, perché se dopo la Cresima non continuano ad avere un rapporto con la comunità cristiana viva, con dei laici, dei testimoni, dei parroci, è facile che siano risucchiati dallo studio, dal divertimento, dal clima secolarizzato del tempo. Ecco allora la necessità di attività ed esperienze di vicinanza permanente, la prima della quali, insisto ancora, è l’oratorio parrocchiale permanente, oltre che i bellissimi oratori estivi». Durante l’episcopato di mons. Fiordelli, l’Italia venne a Prato. Durante il suo episcopato è stato il mondo a venire a Prato. Ancora l’opinione pubblica si domanda se gli immigrati siano più una risorsa o un problema…«L’immigrazione è un fenomeno che con le vie di comunicazione di oggi e con la miseria, le guerre che imperversano nel mondo, è inevitabile. Certo, c’è immigrazione e immigrazione. Bisogna dire che l’immigrazione pratese è un capitolo particolare: quella cinese è un’immigrazione-occupazione, decisa da lontano e un po’ da vicino, accolta, vuoi per distrazione, vuoi per interessi, vuoi per assenza di governo del fenomeno che certamente, da principio, essendo così massiccio presentava delle difficoltà di vario genere. Non ho mai preso alla leggera questa questione: ho sempre parlato di regole di accoglienza, per le persone più bisognose. Le regole valgono ovviamente per tutti, e particolarmente per l’immigrazione cinese. Tanti immigrati e tante immigrate hanno fatto comodo, sono stati utili alla società pratese, penso a certi lavori e servizi. Molti pratesi hanno guadagnato dall’immigrazione cinese e non è vero che è solo colpa del Governo, del Comune o di istituzioni varie. Certo, il fenomeno è stato così veloce che ha creato disagio nella popolazione. Io non sono propenso a dire che i pratesi siano razzisti: i pratesi hanno subìto un fenomeno al di sopra di loro». Sono parole molto nette. Allora come mai talvolta è stato accusato di essere «buonista»?«Sì, sono stato accusato, soprattutto da qualcuno, di pensare più agli immigrati che al disagio dei pratesi. Cosa che non è vera: ci sono testi, dichiarazioni…». Non è vero, dati alla mano.«Non è vero, dati alla mano. Poi passa la voce che il Vescovo è buonista, il Vescovo è di sinistra… Il mio atteggiamento è stato logico e articolato: come non aver pietà di tanti poveracci che laggiù hanno lasciato mondi pieni di dolori e sofferenze? È importante per noi coniugare il rigore, il rispetto delle regole che è giusto, con rapporti di vicinanza tra pratesi e immigrati. Parto dai cinesi perché sono quelli più ricchi, quelli che lavorano di più: è auspicabile che si riesca a stabilire delle relazioni, anche economiche. Se improvvisamente il governo cinese obbligasse i connazionali a tornare in Cina, credo che molti pratesi batterebbero la testa per terra; non so se le cose migliorerebbero. Ma c’è un altro grande tema per noi, oltre alla carità, ed è quello dell’evangelizzazione: abbiamo migliaia e migliaia di persone non credenti, non cristiane, qui da noi. E non dobbiamo fare nulla perché Cristo sia conosciuto anche qui?». Un anno dopo il suo arrivo a Prato lei rivolse una lettera a tutti i pratesi intitolata «Per amore di Sion non tacerò». Lei in tutti questi anni non ha taciuto. Chi invece a suo giudizio avrebbe dovuto parlare di più?«Anche noi avremmo dovuto parlare di più, anche la nostra voce sarebbe stato bene che fosse più univoca. Io non posso accusare gli altri senza fare l’esame a me stesso. Però forse se coloro che hanno attività, impegni politico- sociali, sindacali, avessero cercato di più la verità e meno l’interesse di parte, sarebbe stato meglio». Un altro suo documento rivolto ai preti si intitolava «Come corde alla cetra»: ogni corda è diversa ma suona armoniosamente nello stesso strumento; così lei vuole i sacerdoti. Come mai è difficile far «suonare insieme» i preti?«Non bisogna mai dimenticare che il voto supremo di Gesù prima di andare incontro alla Passione e alla morte è stato quello che ’Siano uno’. Questa è la più grande tentazione dei cristiani: quella di dividersi. Però io sono contento dei preti pratesi e li ringrazio. Ho passato dei giorni belli con loro, nei ritiri spirituali, nei pellegrinaggi, per esempio. L’appello ai preti è veramente uno solo: abbiate uno spirito di servizio generoso, una volontà di camminare insieme tutti, respingendo la tentazione dell’isolamento. Quando coi sacerdoti di Prato andammo in udienza da Giovanni Paolo II celebrando con lui la messa la mattina alle 7 nella sua cappella privata, io glieli presentai, dicendo a Wojtyla che la maggior parte di loro erano parroci. E lui disse: ’Parochus supra Papam’, il parroco conta più del Papa». Spesso la Chiesa è accusata di intervenire troppo e fuori luogo. Quanto l’autonomia della società civile ha un valore e la separatezza dalla società religiosa è un disvalore?«La Chiesa si sente libera di parlare, di giudicare e di indicare. E però riconosce al tempo stesso quanto la società sia plurima, fatta di persone che non la pensano alla stessa maniera, con diverse fedi religiose, diverse filosofie. Ci sarà bisogno di fare una sintesi per la pace, per il massimo della giustizia. Una dialettica è inevitabile: io parlo spesso di mediazione politica; il diritto non coincide sempre con gli ideali morali, ma deve cercare di incarnarli al massimo. Sarebbe una pretesa ’cervellotica’ pensare che tutto l’ideale morale s’incarni subito e sempre nelle leggi, nello Stato e nelle istituzioni varie. Un po’ di dialettica è inevitabile». Una delle cifre del suo impegno prima di sacerdote nella diocesi di Fiesole, poi di Vescovo qui a Prato, è stato l’impegno nella cultura della politica di ispirazione cristiana. In tempi di antipolitica così larga, da dove ricominciare per una politica di ispirazione cristiana?«Che il degrado della vita politica sia sotto gli occhi di tutti è vero. E tuttavia io credo che si possa ricominciare ad avere motivi di fiducia, innanzitutto non facendo lo sbaglio enorme di pensare che la politica in sé sia qualcosa di impuro. La politica in sé è una delle funzioni più alte dell’umanità perché vuol dire preoccupazione, cura con intelligenza, coscienza e capacità della cosa comune, del vivere insieme, dello sviluppo della civiltà umana. Ma anche creazione delle condizioni in cui le persone possano mettere a frutto le loro risorse, creare civiltà, umanità buona. Ci vogliono persone che abbiano un’idea del bene comune, di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Persone che abbiamo una squisita coscienza morale che li porti a essere intransigenti nel loro agire sul piano dell’onestà, dell’uso dei soldi, respingendo la tentazione dell’appropriazione indebita e quella, più sottile, dell’identificare il loro potere con il bene pubblico». In questi venti anni il mondo è davvero cambiato, a Prato come in Italia, e in realtà sembra cambiato in peggio. Come intravedere in questa prospettiva segnali di speranza?«Non è competenza mia avere formule economiche. E neppure politiche, anche se sono molto interessato ad esse perché ho cercato di creare una sensibilità, una coscienza politico-sociale d’ispirazione cristiana vera. Io però credo in una Parola e in un valore, quello del massimo dell’unità e della concordia. A livello locale, come si può uscire da questa crisi se non c’è un accordo, una capacità di cooperazione fianco a fianco permanente? E anche a livello europeo: come è possibile uscirne senza istituzioni più unitarie sul piano politico? Com’è possibile difendersi dai grandi speculatori internazionali che sono pochi e che hanno dei capitali più grossi dei Pil di tante nazioni mondiali? A Prato è stata una delle mie insistenze in questi anni. Può essere sembrata una predichetta, forse, ma è una formula etica assolutamente necessaria per il meglio della vita politica, e anche della ripresa». Torniamo al suo episcopato. Ci ha detto delle tante gioie, ma spesso l’ha paragonato anche alla croce. Quale peso ha avvertito maggiormente?«Credo che tutti i vescovi, come tutti i parroci, abbiano delle croci. Non conosco un ambito della vita in cui non ci siano croci. La difficoltà maggiore per me è stato il governo, un’arte difficile in cui oltre agli ideali ci vogliono le capacità di decisione, la conoscenza delle persone che hai davanti, e della situazione». Qualcuno ha detto avrebbe dovuto avere più polso…«Può essere che questa critica vada a segno, fino a un certo punto, però. Prendere dei provvedimenti che magari mi sembravano anche giusti, avrebbe dato molto dolore ad alcune persone e non avrebbe portato vantaggi pastorali rilevanti. E se mi fossi ritrovato ad avere più polso nei confronti di quelli che mi dicevano di averne di più, avrebbero costoro avuto la stessa idea? Comunque, è una critica che ha il suo valore e che in parte accetto». In conclusione, il Vescovo è rappresentante e nello stesso tempo servitore di Cristo. Ma Cristo chi è per lei?«Tutto. Dio con noi, Redentore. Ci chiama a una vita intima con lui, alla sequela sua, all’imitazione sua il più possibile, nei vari stati della vita. Lui ha un cuore misericordioso così grande che nessun peccato nostro, per quanto grande, può diminuire o annullare».