Italia

Dopo il caso del bambino «vegano»: nutrire i figli con saggezza

Da che parte stiamo? Senza tentennamenti, dalla parte di «Filippo» (nome di fantasia), il bimbo di 11 mesi che, proprio in questi giorni, in Toscana, ha rischiato di morire a causa della malnutrizione.

Un’altra storia di povertà e di stenti economici? Neanche per idea. Solo un banale «convincimento», gravemente malvissuto, che stava per trasformarsi in tragedia. I genitori di Filippo, entrambi vegani convinti, hanno deciso di avviare fin da subito il figlioletto al medesimo stile di vita alimentare, provando a svezzarlo con cibi «coerenti» alla loro visione. Ma, di fronte al rifiuto di questa dieta da parte del piccolo, la madre – senza consultare alcun medico o nutrizionista – si è limitata a continuare ad allattarlo al seno, senza altre integrazioni nutritive. Purtroppo, avendo anche lei carenze nutrizionali (per un’errata scelta degli alimenti vegani, che invece necessitano di essere ben bilanciati) e una forte carenza di vitamina B12, ha trasmesso questi «deficit» al figlio con il latte. Risultato? Il piccolo Filippo si è ritrovato, in breve tempo, in uno stato di denutrizione qualitativa e con un grave quadro clinico di regressione neurologica. Per fortuna, di fronte ai sintomi ingravescenti, i genitori hanno finalmente chiesto l’aiuto di un medico e, dopo un pronto ricovero ospedaliero, il peggio è stato scongiurato, anche se ancora non si può escludere la permanenza di danni nel bambino a causa della prolungata malnutrizione, durante uno stadio di crescita così delicato.

Tutta colpa della dieta vegana? Evidentemente no. Qui non sono in discussione gli stili alimentari in sé. Onnivori, vegetariani, vegani, ecc…: modi diversi di nutrirsi, tutti accettabili, purché praticati con raziocinio e realizzando una dieta nel suo insieme equilibrata.

Il punto è un altro. Al netto delle implicazioni giudiziarie (l’iscrizione della coppia nel registro degli indagati per sospetti maltrattamenti in famiglia), i genitori di Filippo – che, a detta dei medici che curano il bimbo, sembrano essere in buona fede e si dichiarano profondamente pentiti per la «superficialità» commessa – hanno compiuto un grosso errore, che non è solo «tecnico». Per capirci, probabilmente si tratta dello stesso errore che compiono i genitori dei tantissimi bambini (magari onnivori) in sovrappeso od obesi, presenti nella nostra popolazione (secondo i dati Istat, in Italia, «maglia nera» d’Europa, sono quasi il 30% del totale). Potremmo limitarci a gettarla sul «sociologico», accontentandoci di osservare che l’alimentazione errata dei figli sta diventando un rilevante problema socio-sanitario. Potremmo anche aggiungere che le cause sono molteplici, dalle carenze culturali, alle condizioni socio-economiche squilibrate, e così via. E diremmo anche il vero, ma cogliendo solo una prospettiva del fenomeno.

Forse dovremmo interrogarci anche su altro. Ad esempio, sul fatto che tanti genitori, sperimentando la difficoltà di sviluppare un corretto rapporto «relazionale-affettivo» con i figli che crescono, possono tendere – in modo inconsapevole – a «compensare» tali carenze con una cura nutrizionale maldestra e squilibrata. Oppure, come nel caso di Filippo, sono le «ideologie» (nell’occasione «alimentari») genitoriali, a volte assolutizzate, che finiscono, almeno in prima battuta, per sopravanzare la cura concreta della salute dei figli.

In entrambi i casi, occorre ripartire da un punto fermo: il bene integrale dei figli. Il bene dei tanti piccoli «Filippo» che chiedono di essere «nutriti» adeguatamente, nel corpo, nel cuore e nella mente, per crescere armoniosamente e senza «forzature». È questo l’impegno che deve occupare sempre il primo posto nelle dinamiche relazionali ed educative tra genitori e figli (soprattutto in tenera età). Compresa la sfera della cura nutritiva.

Occorre perciò una rinnovata assunzione di responsabilità da parte dei genitori. Essi, infatti, che hanno generato e messo al mondo i figli perché possano crescere ed essere se stessi, hanno allo stesso tempo il dovere (ed il diritto) di dedicare tutte le proprie energie a questo scopo, senza mai dimenticare però che ciascun figlio, in quanto persona, è un fine in sé, mai un mezzo per colmare altre esigenze.