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Unione Europea, vietato fallire

di Gianni Borsa Vietato fallire. Il summit dei capi di Stato e di governo convocato per venerdì 12 e sabato 13 dicembre a Bruxelles in chiusura della Conferenza intergovernativa e del semestre di presidenza italiana, dirà una parola certa sulla capacità dell’Unione di darsi una Costituzione prima dell’allargamento. Un passaggio essenziale per mettere nero su bianco l’identità e i grandi obiettivi dell’Ue, per definire un quadro normativo certo e per adeguare le istituzioni ad una “casa comune” che passerà da 15 a 25 membri.

La Cig ha lavorato sodo partendo dalla bozza di Trattato stesa dalla Convenzione; alla presidenza di turno (con in testa il premier Silvio Berlusconi e il ministro degli esteri Franco Frattini) è toccata una costante mediazione sui capitoli più delicati della futura Magna Charta: il voto in seno al Consiglio europeo; la composizione della Commissione; la figura del ministro degli esteri Ue. Molti sono stati i nodi sciolti in questi due mesi di lavoro della Cig, che peraltro si è attenuta in gran parte al testo firmato dal presidente della Convenzione, il francese Valery Giscard d’Estaing. Ma diverse altre questioni rimangono da definire: basterebbe ricordare il dossier sulla politica di difesa e l’eventuale citazione delle “radici cristiane” del continente nel Preambolo costituzionale. Su entrambe le tematiche una convergenza è quasi certa: positiva nel primo caso, negativa nel secondo. Nessun leader sembra infatti intenzionato – al di là di tante dichiarazioni di principio – a farsi in quattro per scrivere nel “dna” dell’Ue il riferimento all’eredità cristiana.

Restano invece aperti due nodi “istituzionali”. Il primo riguarda la composizione della Commissione: come richiesto dai paesi più piccoli, dai nuovi “soci” dell’Ue e da Romano Prodi, probabilmente si giungerà a definire la regola “uno Stato, un commissario”. Il secondo problema aperto è quella del voto, quindi del “peso” dei singoli Stati nel Consiglio. Si sta trattando attorno alla cosiddetta regola della “doppia maggioranza”: una decisione sarebbe valida – salvo le materie in cui è d’obbligo l’unanimità, purtroppo ancora numerose – se approvata dalla metà degli Stati membri che rappresentino il 60% della popolazione. Ma tale opzione non soddisfa Spagna e Polonia che, con il metodo attualmente in vigore approvato a Nizza tre anni or sono, godrebbero di un peso sovrastimato rispetto alla loro popolazione. Su questo c’è un reale rischio di rottura. Il peggio che potrebbe capitare sarebbe quello di mandare tutto a monte (sul problema del voto o su qualsiasi altro ostacolo), rinviando sine die la definizione della Costituzione. Un rischio assolutamente da evitare, che obbliga ciascuno ad un surplus di responsabilità.

Giungere infatti all’allargamento e al rinnovo del Parlamento di Strasburgo senza un nuovo Trattato fondativo, causerebbe una brusca frenata al percorso di integrazione, mortificherebbe le aspirazioni dei nuovi aderenti, scontenterebbe i Paesi fondatori, con una Ue costretta a navigare in bassi fondali, mettendo da parte le aspirazioni verso una maggiore coesione e un più serrato sviluppo economico, le invocate riforme sociali, l’obiettivo di un maggior peso dell’Ue sullo scacchiere mondiale.

Diversamente si potrebbe decidere di proseguire l’avventura comunitaria lasciando alle spalle qualche socio riottoso. Si tratterebbe ugualmente di un fallimento. Se a Bruxelles fosse dunque impossibile arrivare ad un accordo di “alto profilo”, sarebbe meglio darsi ancora un paio di mesi di tempo per le trattative, rinviando la chiusura della Cig nel semestre di presidenza irlandese, senza però perdere di vista l’obiettivo della firma della Costituzione prima delle elezioni del Parlamento europeo. L’Europa è a un punto di non ritorno: soluzioni mancate o pasticciate sono ormai fuori tempo massimo.