Cultura & Società

Anche i vinti sono uomini

di Romanello CantiniQuasi sessant’anni dopo i fatti descritti, un libro scritto da un giornalista famoso (Giampaolo Pansa, «Il sangue dei vinti») suscita scalpore su una tragedia finora in gran parte rimossa ed è esaurito nelle librerie in pochi giorni.Si tratta in sostanza più che dell’ultimo capitolo della guerra di liberazione in Italia, di una sorta di appendice superflua e feroce, quando, dopo il 25 aprile 1945 e fino agli ultimi mesi del 1946 si continuò ad uccidere, torturare, seviziare repubblichini, fascisti, collaborazionisti e spie più o meno presunte, ma anche anticomunisti qualsiasi, proprietari terrieri, capi di fabbrica o soltanto mogli e sorelle che avevano visto.

Le dimensioni di questo stillicidio di vendette, di esecuzioni a freddo, di rese di conti individuali non sono mai state definite. La delinquenza comune si confondeva con la delinquenza politica. I cadaveri sparivano nelle fosse comuni o nei fiumi. L’omertà indotta dal terrore induceva a tacere. I morti furono 1700 secondo Mario Scelba, 30 mila secondo Ferruccio Parri, addirittura 300 mila secondo la propaganda neofascista. La forbice enorme delle cifre dimostra da sola la impossibilità di raccontare.

Probabilmente la cifra di ventimila morti che oggi comunemente si tende ad accettare è arrotondata per difetto.In realtà il libro di Pansa non scopre granché di nuovo nella sostanza. Il fenomeno di questa lunga striscia di sangue che si allunga oltre il 25 aprile è nel complesso nota agli storici di professione che l’avevano seppur sommariamente trattato. Libri quasi introvabili di impronta neofascista (Giorgio Pisanò, Antonio Serena ecc.) avevano descritto molti episodi anche nei dettagli. Altre pubblicazioni numerose di carattere locale non avevano avuto naturalmente nessuna eco.

Almeno a grandi linee alcuni degli episodi più clamorosi di questa vicenda erano ormai largamente conosciuti. Per esempio il famigerato triangolo della morte, fra Bologna, Modena e Reggio dove nell’immediato dopoguerra sono assassinate oltre mille persone fra cui diciotto parroci che nulla avevano a che fare con il fascismo. Oppure il mattatoio della cartiera di Mignagola di Carbonera, in provincia di Treviso, dove subito dopo il 25 aprile vengono torturate e assassinate centinaia di persone. O l’irruzione dei partigiani nelle carceri di Schio, di Carpi, di Ferrara con il massacro in massa dei detenuti.

Ci sono, sia ben chiaro, spinte oggettive che stanno alle spalle di questa stagione di violenza. Ogni guerra civile (la più incivile di tutte le guerre) ha quasi sempre un lungo strascico di violenza dietro di sé. In Spagna, dopo la vittoria di Franco, gli oppositori eliminati furono forse 200 mila. In Francia, dove il regime di Vichy era penetrato nella società più della repubblica di Salò, la violenza contro gli ex-collaborazionisti colpì forse oltre 100 mila persone. Le stragi nazifasciste, le torture e le fucilazioni dei partigiani, una guerra che aveva riempito l’Italia di lutti e rovine, avevano esasperato gli animi fino alle espressioni estreme della più brutale ferocia. Ogni guerra è per sua natura non solo esercizio, ma anche scuola di violenza. Allora perfino i giochi dei bambini erano giochi di guerra.

Oggi che c’è una generale repulsione verso la pena di morte troviamo un forte disagio anche verso quelle «Corti di assise straordinarie» formate da partigiani che in pochi minuti condannavano a morte il nemico e che certamente potevano essere interpretate anche come un invito ad accorciare ancora di più la procedura sparando a vista.E tuttavia soprattutto di fronte a molti morti che neppure fascisti erano stati, rimane da aggiungere un’altra considerazione. Buona parte dei partigiani comunisti che morivano gridando «Viva Stalin» erano, nonostante il «partito nuovo» di Togliatti, uomini formati nella Terza Internazionale quando vigeva ancora la lezione della rivoluzione russa con annessa la pratica della eliminazione del nemico e del terrore come strumento intimidatorio di massa. Negli ultimi venti anni nelle interpretazioni della Resistenza al tema della «guerra di liberazione» (lotta di tutto il popolo italiano contro l’invasore tedesco) si è aggiunto quello della «guerra civile» (lotta fra italiani e italiani dove forse i combattenti a vario titolo della Repubblica sociale furono più numerosi dei combattenti partigiani) e infine quella della guerra sociale (lotta contro il nemico di classe sia esso padrone o semplicemente anticomunista). È in buona parte sotto quest’ultimo aspetto che vanno collocate le meno colpevoli anche se non troppo numerose vittime di una storia comunque terribile.Il libro di Pansa, con un autore prestigioso e una grande casa editrice alle spalle, ha fatto sì che il pubblico di una storia per ora riservata a pochi iniziati diventasse ben più largo. Ciò che finora si sapeva erano cifre o al massimo nomi. Il vantaggio del libro di Pansa, che è anche un cronista e un narratore, è quello di aver dato dei volti a quei numeri e di aver messo della carne intorno a quei nomi così da riconsegnarci gran parte di quella storia tragica nella disaggregazione delle singole storie individuali sofferte. C’è, tra i primi libri sulla Resistenza, un brutto libro di Vittorini («Uomini e no») che già nel titolo dice tutto. Da un lato ci sono i partigiani grandi eroi positivi, dall’altro ci sono i nemici che sono non uomini e quindi bestie. Il libro di Pansa, da sempre convinto antifascista e autore di appassionanti storie partigiane, ha ora il coraggio di dirci che anche tra coloro che dall’altra parte sbagliano tutto e in tutto c’erano degli uomini. È un passo per cercare di trovare alla fine pietà anche per i vinti e per arrivare ad una visione meno lacerata della nostra storia.Giampaolo Pansa, «Il sangue dei vinti», ed. Feltrinelli 2003, pp. 380, € 17