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«Fabbricanti di arcobaleni», la storia dei costruttori di pace

«Fabbricanti di arcobaleni», il libro di Romanello Cantini, edito in questi giorni da Jaca Book (414 pp, e. 28) è un grande affresco dedicato a coloro che, nei modi più diversi, hanno operato per la pace negli ultimi cento anni in mezzo alle tragedie delle due guerre mondiali, passando per la guerra di Algeria e la guerra del Vietnam, fino alle guerre non ancora completamente spente dell’Iraq e dell’Afganistan. Nel libro, dal secolo più sanguinoso della storia, emergono centinaia e centinaia di figure di religiosi e di laici, alcune note e tantissime ignorate, che hanno lottato per tutta la vita per la pace oppure si sono proposte come esempi di costruttori di pace con un insegnamento, una pratica, un gesto, una testimonianza.

Il volume si divide in quattro parti. Nella prima parte si segue la crescita del fenomeno degli obiettori di coscienza, numerosi in soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati uniti fin dalla prima guerra mondiale, insieme al rifiuto estremo della guerra rappresentato dalla renitenza, dalla diserzione perfino dall’ammutinamento. Attraverso la guerra d’Algeria e la guerra del Vietnam , due guerre in sostanza perdute perché gran parte di francesi e di americani si rifiutò di farle, si registra la fine dell’esercito di leva con la consegna della guerra prima ai volontari, poi ai mercenari, infine ai robot che sostituiscono i soldati con la constatazione che, almeno nel mondo occidentale, è sempre più difficile trovare uomini disposti a fare e a sopportare una guerra.

Nella seconda parte si descrive l’enorme sviluppo degli armamenti nell’ultimo secolo insieme ai tentativi di disarmo , alla lotta degli scienziati contro l’atomica fra rimorsi, rifiuti e ammonimenti, alle dimostrazioni antinucleari del secondo dopoguerra, alle grandi manifestazioni di massa contro gli euromissili degli Anni Ottanta fino alle campagne per eliminare certi tipi di armi. Alla fine si scopre che negli ultimi anni anche i grandi politici che in passato hanno sostenuto e difeso l’arma nucleare ora chiedono con forza l’eliminazione degli armamenti atomici dalla faccia del pianeta.

La terza parte riguarda la grande lezione della non violenza a cominciare naturalmente da Gandhi, ma seguendo anche tutte le battaglie non violente che negli ultimi cinquanta anni, contrariamente alle previsioni dei cosiddetti realisti, sono alla fine risultate vittoriose: da quella di Luther King in America, a quella di Corazon Aquino nelle Filippine, a quelle di Walesa o di Havel nei paesi dell’Europa dell’Est. E infine si annotano gli esempi di non violenza, in genere sconosciuti, che sono apparsi ormai in tante parti del mondo, dalla ex-Jugoslavia, all’Indonesia, alla Palestina, all’America Latina, perfino nel mondo islamico. La quarta parte è dedicata alla storia della Società delle Nazioni e delle Nazioni Unite con le grandi sconfitte nell’imporre la pace, ma anche con i risultati positivi nel prevenire e nel troncare in parte le guerre o almeno nel ridurne le sofferenze. L’ultima parte è dedicata ad un tentativo di previsione sulle sorti della pace nell’immediato futuro e sui rischi che nel Duemila possono ancora rendere possibili le guerre.

Franco Vaccari: «Le parrocchie tornino a fare formazione e informazione»

di Claudio Turrini

Tra i «fabbricanti di arcobaleni», almeno qui in Toscana, c’è sicuramente anche lui. «Rondine», la «cittadella della pace», nei pressi di Arezzo che Franco Vaccari ha fondato e dirige, è la testimonianza che la stagione di semina di profeti come Giorgio la Pira, don Lorenzo Milani o padre Ernesto Balducci sta dando frutti abbondanti, pur in un tempo in cui la sensibilità per questi temi sembra esser calata. Che l’attenzione per i temi della pace e della guerra sia diminuita ce lo conferma lo stesso Vaccari: «Pensiamo alle nostre parrocchie. Nelle stanze del catechismo non lo trovi più un cartello al muro con scritto “Con un Jet si sfamano tot persone”, come era normale anni fa. Questo è preoccupante. Non perché il tema della pace sia soltanto riconducibile agli armamenti. Ma rimane sempre una variabile fortissima».

Ai tempi delle due guerre contro l’Iraq ci fu una grande mobilitazione di piazza. Per la Libia o per la Siria no. Perché?

«Ci sono tanti motivi. Uno è che noi viviamo con la consapevolezza di vivere contemporaneamente in un tempo di pace e in un tempo di guerre. Perché la globalizzazione ci ha portato ad essere cittadini del mondo».

Forse è cambiata anche la tipologia della guerra..

«Cantini lo dice nel libro: ci sono meno guerre, ma non sono meno feroci. E i significati che hanno sono molto più complessi di prima. Quello che succede in Siria è maledettamente complicato. Non si riesce più a capire quali sono le forze in campo. Quando le cose sono così difficili, poi la porti male in piazza la gente. In piazza ci va o perché ha fame, oppure quando ci sono i grandi obiettivi, con il “buono” e il “cattivo” facilmente identificabili. E invece in queste situazioni il buono e il cattivo sono difficili da trovare».

Lo si è visto anche in Libia, con la fine brutale riservata a Gheddafi e alla sua famiglia…

«Le guerre non portano mai niente di buono, non risolvono mai i problemi. La fine dei dittatori, da Ceausescu in poi, pone questioni che la coscienza della non violenza avverte. Ciò che nasce non è completamente sposabile. Per quei paesi ci vorranno decine d’anni prima di arrivare ad una forma di convivenza pacifica».

Eppure cresce la coscienza che la pace è un bene…

«Cantini cita Kant e la sua illusione che l’avvento delle democrazie avrebbe portato la pace, perché – riteneva il filosofo – nessun cittadino se chiamato a scegliere tra la pace e la guerra sceglierà una guerra che poi deve fare. Non è stato così. Però è innegabile che la coscienza della pace stia crescendo».

Cosa possiamo fare per favorire questa crescita?

«Bisogna fare formazione e informazione fin da piccoli e far vedere che la questione della pace sta nel cuore delle persone per evitare poi l’atteggiamento ideologico, cioè una visione disincarnata che esime dal coinvolgimento personale».

Una parte del mondo cattolico vedeva con un po’ di sospetto le marce per la pace e un po’ tutto il movimento.

«Bisogna riconoscere che questo grande movimento, al quale in qualche modo, con più o meno convinzione, abbiamo partecipato un po’ tutti, era fortemente ideologizzato. Qualcuno diceva che fosse a senso unico. Non credo che sia vero, anche grazie alla componente cattolica che ci stava dentro. Però era certamente orientato. Ma il punto deficitario era che esprimeva una cultura dell’analisi, della contestazione e della profezia di grande interesse e condivisibile. Mostrava invece il fianco quando diventava cultura di governo ed era chiamato a fare scelte di pace. E lì abbiamo assistito a delle ferite. Un presidente del consiglio come D’Alema che accetta che dalle basi di Aviano partano i cacciabombardieri verso la Serbia o altre scelte di partecipazione con tutte quelle sofisticherei del tipo “ti do le basi ma non la benzina”… Alla fine abbiamo di fatto condiviso azioni di guerra, anche quando le fragili istituzioni internazionali non avevano dato il loro benestare».

Cosa vuol dire governare con una cultura della pace?

«Per esempio che gli eserciti nazionali hanno finito il loro tempo e che ci dobbiamo dotare – con passaggi intermedi ovviamente – di un esercito e di una politica di difesa unica in Europa, che si muova soltanto sotto l’egida dell’Onu e degli altri organismi internazionali. E vogliamo dire che la rendiamo più efficiente e meno costosa, riducendo le spese per gli armamenti?».

Abbiamo citato situazioni dolorose con la Siria. Ci sono anche segnali positivi, di speranza?

«Ne cito alcuni. La pace in Irlanda: nonostante che ancora oggi ci siano alcuni elementi di turbolenza la questione si può considerare risolta. E che questo sia avvenuto dentro l’Europa ci deve far capire che abbiamo tra le mani un giocattolo – l’Europa –  che non dobbiamo distruggere. Secondo, i Balcani: dopo la prima fase in cui si è assistito inermi agli orrori, grazie al meccanismo inclusivo dell’Europa, piano piano, si è imboccata la strada della pace. Sono stato a Sarajevo un mese e mezzo fa e mi sono reso conto che certamente le situazioni sono ancora drammatiche, che se le forze di interposizione se ne andassero, potrebbero riesplodere violenze, però è tutta un’ampia zona di territorio e di culture diverse che stanno orientando il grosso delle loro scelte culturali, politiche ed economiche nella direzione della stabilità e della pace. Un’altra situazione da segnalare è la sponda sud del Mediterraneo. C’è una ripresa di attenzione, anche da parte di questo governo. Dobbiamo riconsiderare Europa e Mediterraneo insieme. Ci vorrebbero grandi progetti: come nell’Europa è avvenuta la libera circolazione non solo delle merci e dei capitali, ma anche delle persone e dei giovani. È tutto da fare ma ci sono segnali di attenzione e di buona volontà».

Pierluigi Consorti: Come risolvere i conflitti si impara all’università

di Andrea Bernardini

Cinque figli – quasi tutti adolescenti – una moglie, una suocera in casa. Il professor Pierluigi Consorti, 51 anni, romano di origine e pisano d’adozione, vive ogni giorno le tensioni tipiche di una famiglia extralarge: dunque, quando parla ai suoi studenti di pace e di soluzione non violenta dei conflitti, sa bene a cosa si riferisce. Spende in mille attività la sua passione su questi temi. Consorti è direttore del centro di ateneo «Scienze per la pace», direttore del master universitario in gestione dei conflitti e mediazione, segretario generale della fondazione Remo Orseri per la collaborazione culturale tra i popoli, membro del Centro interuniversitario di studi sul servizio civile e dell’International Consortium for Law and Religion Studies. Insomma, la persona giusta per parlare di alcuni dei temi affrontati da Romanello Cantini in «Fabbricanti di arcobaleni».

Professor Consorti: da 67 anni (quasi tutta) l’Europa vive in pace. Un primato che ha fruttato all’Ue il nobel 2012. Oggi la convivenza pacifica tra i popoli del nostro continente sembra un fatto scontato agli occhi delle nuove generazioni. Eppure si vedono ancora girare nei centri commerciali arzille vedove di ottanta e più anni che riempiono il carrello di generi alimentari, da stipare in casa perché un giorno, chissà, potrebbe tornare la guerra…

«Frequentiamo supermercati diversi. Tutte queste vedove arzille che fanno scorte non le vedo. Forse a causa della crisi economica. Ma certo se quelle donne conservano memoria della guerra e dei patimenti sofferti, è possibile che sappiano attrezzarsi nel caso in cui la guerra tornasse. Non è peraltro un’ipotesi assurda. Del resto anche il Nobel per la pace all’Unione europea mi sembra un Nobel alla memoria. Speriamo che se ne faccia tesoro per il futuro, ma non mi sembra che l’Europa stia davvero lavorando per la pace nel mondo. Il capitale di pace che ha accumulato dentro i suoi confini, non è stato ancora investito a vantaggio di chi soffre la guerra. I Balcani ad esempio, che sono in Europa, se non sbaglio, sono tutt’altro che pacificati. Assomigliano ad una polveriera, e la politica europea fa la figura di uno che accende sbadatamente la sigaretta senza capire cosa ha accanto».

Il primo obiettore di coscienza documentato fu, nel 1917, Remigio Cuminetti, testimone di Geova. Per veder però, riconosciuta l’obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio, occorrerà aspettare fino al 1972. Dal 2005 la leva obbligatoria è stata sospesa. Oggi le divise militari le indossano solo i professionisti. Un lusso – quello dell’abbandono delle armi – che ci possiamo permettere?

«Abbandonare le armi non è un lusso, ma una necessità. Peraltro la sospensione dell’obbligatorietà della leva va nella direzione di una maggiore efficacia delle forze armate. Nel passato recente tutti i maschi indossavano la divisa, ma pochi avevano occasione di sparare davvero. Oggi tutti quelli che indossano la divisa, uomini e donne, hanno occasione di vedere la guerra da vicino. Le chiamiamo operazioni di pace, ma in senso tecnico sono atti di guerra veri e propri, come dimostra il numero di vittime che sempre più spesso piangiamo fra i nostri militari. Queste esperienze toccano il cuore del problema: la memoria della guerra non ci ha ancora fatto fare il salto di qualità verso la ricerca di alternative alla guerra».

Ma esistono alternative alla guerra?

«L’alternativa alla guerra è la pace. Molti ancora pensano alla guerra come ad uno strumento utile per risolvere i conflitti. Ma non c’è mai stata una guerra che abbia risolto qualcosa. E le guerre hanno sempre portato morte e distruzione. Ciononostante continuiamo ad addestrarci alla guerra, e non facciamo nessuno sforzo per addestraci alla pace. La pace non è una condizione naturale. Non va costruita con le armi, ma con mezzi pacifici. Si tratta di attrezzi speciali di cui disponiamo, ma non sappiamo ancora usare bene. Si tratta di impegno civile, solidarietà, giustizia, corresponsabilità, nonviolenza».

Sono i valori per cui i primi obiettori di coscienza subirono la galera. E i serviziocivilisti di oggi? Si avvicinano a questa esperienza con le stesse ferme convinzioni?

«No. Il servizio civile è in grave declino, come purtroppo le altre politiche sociali o giovanili. Invece di investire, si taglia. E i giovani avvertono bene che non si conta su di loro. Pertanto anche la scelta del servizio civile, per chi può permettersela, risulta spesso un ripiego o un parcheggio in attesa del lavoro che non si trova».

Quale destino per il servizio civile?

«Per quello nazionale vedo nero. Spero di sbagliarmi, ma non vedo segnali positivi di inversione di rotta. Al contrario nascono interessanti esperienze di servizio civile regionale, come in Toscana. Devono farsi le ossa, ma potranno darci belle sorprese».

Lei dirige il Centro di Scienze per la pace dell’Università di Pisa. Ci faccia l’identikit dello studente-tipo che si iscrive a questi corsi…

«Scienze per la pace a Pisa è un bel segnale in controtendenza. Siamo rimasti l’unica realtà italiana che forma alla costruzione della pace con strumenti alternativi alle armi. Abbiamo un Corso di laurea triennale ed uno magistrale, al quale si iscrivono ogni anno una cinquantina di studenti provenienti da ogni parte d’Italia. Sono giovani consapevoli di ingaggiare una scommessa con loro stessi, investendo in un percorso formativo ancora non sufficientemente formalizzato, molto interdisciplinare, che li aiuta ad agire in sistemi complessi. In genere la vincono perché il tasso di occupazione dei nostri laureati è più alto degli altri. Ma ogni storia è a sé e dipende molto dalla capacità di studio personale. Non sono corsi facili. Abbiamo poi aperto dei percorsi post laurea centrati sulla mediazione dei conflitti. Ora sono aperte le iscrizioni ad un Master molto innovativo che faremo in comune con l’Università di Firenze.

Corsi di alta formazione, incarichi e missioni all’estero per conto dell’Onu… l’attività di peacekeeping muove un certo business…

«Sì, è vero. Non è tutto oro quel che luccica. Si sente dire che il mondo degli operatori internazionali di pace sia un mondaccio. È possibile. Molti cominciano a criticare l’autoreferenzialità di alcune grandi Ong, sempre pronte ad agire ma altrettanto pronte ad inseguire i finanziamenti pubblici e privati. In effetti esistono professionisti dell’emergenza con pochi scrupoli. Specialmente quelli che collaborano con le forze armate durante le già nominate “operazioni di pace”. Ma come sempre accade, non sarebbe giusto fare un conto unico senza opportune distinzioni. Ci sono ancora, specie in Italia, organizzazioni specchiate che mettono al centro la cooperazione in senso proprio. Noi tecnici distinguiamo in questo senso fra peacekeeping e peacebuilding».

Ossia?

«Tra chi mantiene la pace, in genere intervenendo anche militarmente in un conflitto, ovvero al termine delle operazioni di guerra; e chi la pace la costruisce prevenendo l’escalazione violenta del conflitto».

Si è discusso molto, nei giorni scorsi, della decisione della procura di Stoccarda di archiviare l’inchiesta sulla strage di Sant’Anna di Stazzema, avvenuta nel 1944. In molti hanno chiesto che i colpevoli di quella strage, seppur ultra ottantenni, vengano individuati e condannati. Ci risponda da operatore di pace: l’accertamento di una verità processuale aiuta a riemarginare una ferita e a superarla?

«L’accertamento della verità processuale non sempre coincide con la verità effettiva. In ogni caso punire non è sempre una soluzione efficace. L’accertamento della verità dovrebbe essere una precondizione per assicurare la riconciliazione tra vittime e persecutori. Il nodo della coesistenza pacifica postconflittuale sta tutto qui. Mettere in galera i colpevoli non sempre risolve».

Gli uomini e le donne che oggi indossano una divisa e usano le armi sono (salvo rare eccezioni) dei professionisti. La guerra tra popoli non c’è più. Però in molti casi si è trasferita fuori e dentro gli stadi. Avete mai pensato di inviare in quei luoghi qualche aspirante peace-keeper?

«Sì. Ci sono stati progetti di servizio civile nazionale espressamente dedicati alla prevenzione dell’uso della violenza. Gli stadi sono talvolta arene moderne dove si celebrano riti violenti preparati nelle sedicenti tifoserie, che prendono a pretesto il gioco del calcio . Il problema è però più ampio. Assistiamo ad un ritorno alla pratica della violenza anche in alcuni settori politici, non solo giovanili. E la stessa violenza è talvolta esercitata dalle forze dell’ordine, come insegnano le condanne relative ai fatti del G8 di Genova. Ancora una volta manca l’educazione alla nonviolenza come pratica e non solo come valore ideale».