Opinioni & Commenti

La battaglia politica sui vaccini e la credibilità delle istituzioni

Preliminarmente è forse necessario fare chiarezza sui contenuti della legge statale. Essa muove da un fine, che viene esplicitato in apertura: «Assicurare la tutela della salute pubblica e il mantenimento di adeguate condizioni di sicurezza epidemiologica». Al riguardo va ricordato il principio costituzionale di riferimento, che sancisce l’obbligo per la Repubblica di tutelare la salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività», ponendo quindi due dimensioni di tale diritto: la prima che guarda all’individuo e mira a realizzare ogni misura necessaria a sua tutela; la seconda che considera invece la collettività e tende a tutelare la «salute pubblica». È evidente che il secondo obiettivo può anche limitare il primo.

Se la salute individuale, come ormai consolidato, comporta l’autodeterminazione, vale a dire il diritto di ciascuno di decidere liberamente se e come curarsi (al limite, anche non curandosi o lasciandosi morire), allorché debba essere garantita la salute collettiva quel diritto può essere limitato o affievolito. Le vaccinazioni stanno qui (come affermato dalla Corte costituzionale già nella sentenza n. 132/1992), e l’incipit del decreto lo conferma: esse servono a garantire la salute pubblica, e come tali implicano un sacrificio necessario al diritto di ciascuno di decidere in merito alla propria salute (ovvero dei genitori di decidere su quella dei propri figli, dato che l’obbligo di vaccinarsi è previsto per tutti i minori di età compresa tra zero e sedici anni). Tutto questo pone una serie rilevante di problemi, che tuttavia non possiamo ora ulteriormente approfondire.

Vi è poi un’altra dimensione che deve essere considerata, e che riguarda le conseguenze (previste dalla legge) nel caso di mancato adempimento dell’obbligo di vaccinarsi. La stessa legge ne prevede infatti di due tipi: il pagamento di una sanzione pecuniaria da cento a cinquecento euro a carico dei genitori; la mancata iscrizione per asili nido e scuole dell’infanzia dei bambini non vaccinati, mentre per i successivi gradi di istruzione la mancata vaccinazione non comporta esclusione, ma è previsto un percorso di recupero (della vaccinazione) con possibili sanzioni amministrative.

Quest’ultima previsione, che potrebbe apparire in sé contraddittoria, e che da alcuni è stata denunciata come irragionevole per disparità di trattamento, potrebbe comprendersi alla luce di un altro principio costituzionale, che come noto impone l’obbligo scolastico per «almeno otto anni», e che il legislatore – ad oggi – ha fissato in dieci anni: il mancato adempimento di quest’obbligo è sanzionato sul piano amministrativo ed anche su quello penale, sia per quanto riguarda il minore inadempiente che con riguardo anche a chi deve effettuarne la vigilanza (di norma, i genitori). La previsione del decreto vaccini, dunque, prevede la non ammissione alla scuola di quei bambini che non sono, per legge, obbligati a frequentarla, mentre non può farlo per gli altri, perché li costringerebbe a non adempiere ad un obbligo imposto dalla stessa Costituzione. Se questa è la ratio, mi pare che la distinzione operata dal legislatore risulti non irragionevole.

In questo contesto così delicato, nonché coacervo di interessi anche contrastanti, si inserisce un ulteriore profilo problematico, originato dalle iniziative assunte dalla Regione Veneto. La quale si è mossa in due direzioni: da un lato, ricorrendo alla Corte costituzionale contro la legge, per una serie di profili di presunta incostituzionalità; d’altro lato – ed evidentemente considerando che la sentenza della Consulta non arriverà prima di un anno – adottando un decreto dirigenziale con il quale, di fatto, «sposta» la previsione della possibile decadenza dell’iscrizione per le scuole per l’infanzia dall’anno scolastico che sta per iniziare a quello successivo, sulla base di una ritenuta incongruenza della legge e «in attesa di eventuali ulteriori chiarimenti ministeriali». Con un improvviso quanto imprevisto dietro-front, tuttavia, quest’ultimo provvedimento è stato ritirato dalla stessa Regione soltanto pochi giorni dopo la sua emanazione: al momento in cui scrivo non sono chiare le ragioni di tale ritiro.

A mio parere, alcuni dei dubbi di costituzionalità sul decreto-legge statale hanno un qualche fondamento (soprattutto la violazione dell’art. 77 Cost., che richiederebbe di intervenire con decreto-legge solo in casi «straordinari di necessità ed urgenza»: ma sappiamo che su tale principio le porte della stalla sono state aperte da tempo…): il problema, però, è che quando arriverà la sentenza della Corte l’anno scolastico 2017-2018 non soltanto sarà iniziato ma anche finito, con tutti i problemi connessi a quanto nel frattempo sarà successo.

Le ragioni dello spostamento dal presente anno scolastico a quello successivo parevano, invece, del tutto pretestuose: basti dire, al riguardo, che soltanto la Regione Veneto, tra tutte le regioni, aveva ritenuto di agire così, e forse non è un caso che il Presidente di quella Regione non abbia nascosto (anche attraverso il ricorso alla Corte) la propria contrarietà a molti contenuti della legge. Il repentino ritiro del decreto regionale è indicativo, insieme, della sua pretestuosità e di un sussulto di ragionevolezza della Regione.

D’altra parte, quando su una questione si accende la polemica politica (come è avvenuto su questo provvedimento) ognuno gioca con le armi di cui dispone: comportamento legittimo, si badi, ma nel quale potrebbero rimetterci – alla fine – i diritti delle persone e la credibilità complessiva delle istituzioni (oltre che della politica, se qualcuno se ne preoccupasse ancora).