Vita Chiesa

Cosa ci dice il presepe: un modo per vedere la nascita di Gesù «con gli occhi del corpo»

«Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello». Sono parole di Francesco d’ Assisi (riportate da Tommaso da Celano) a un signore di Greccio, suo amico, in questi giorni prima di Natale del 1223. E fu il primo Presepe: un insieme di gesti, segni, parole, canti e azioni, che nel tempo hanno trovato infinite espressioni plastiche. Ma fin da subito il presepe fu più di una rappresentazione, esprimendosi come segno vivo. Rimane oltre gli anni, cresce, si adatta a luoghi, culture e costumi di ogni parte del molto. È capace di coinvolgere e sempre in modo nuovo. Ha in sé una verità, che è più di ogni sua descrizione, sia nel costruirlo che nel contemplarlo.Gli occhi del corpoLa chiave di lettura sta nell’intenzione-espressione di Francesco: rappresentare… per vedere con gli occhi del corpo. C’è una spinta realistica all’incontro fisico con la persona reale del Bambino, di Gesù figlio di Maria. Egli è toccabile, perfino gustabile… Tutti i sensi hanno accesso a lui, al suo nascere e al suo essere posto in un presepe.Per il Figlio dell’Altissimo, invisibile a ogni sguardo umano, questo fu reso possibile dalla sua Incarnazione nel grembo di Maria di Nazareth e dalla sua nascita a Betlemme. Tornando dalla Terra, dove questo si era fatto storia e geografia, Francesco propose a Giovanni Velita: Se vuoi che celebriamo il Natale a Greccio… precedimi e prepara quanto ti dico… L’azione sacra che ne seguì mise in comunione l’amico, la gente e molti frati con ciò che per lui «difficilmente gli riusciva di pensare ad altro… che non fosse… l’umiltà dell’Incarnazione (e la carità della Passione)» (Fonti Francescane 466). Così nasce il Presepe: da questo vivere e condividere intensamente ciò che rappresenta. È una «celebrazione» che, nel suo farsi, crea, nella notte, tutto un movimento di persone, di cose, di voci, canti, animali, fiaccole ed emozioni.Se vuoi vedere davvero, in realtà, con gli occhi del corpo appunto, bisogna muoversi, uscire di casa, portare qualcosa di proprio, convergere insieme verso un medesimo luogo, con il cuore sempre più commosso. E poi fermarsi e guardare, ponendosi in ascolto. Le parole saranno quelle del racconto evangelico, ma pronunciate e commentate da un uomo nuovo: Francesco. Vi mette la sua anima, passando dallo stare estatico di fronte al presepe al leggere il Vangelo con voce forte e dolce, limpida e sonora e questo rapisce tutti in desideri del cielo… Le sue sono parole dolcissime nel modo di chiamare Gesù «bambino di Betlemme», nel suo riempirsi la bocca di voce e ancor più di affetto. A momenti sembrava che, nel dire Betlemme, belasse come una pecora e, nel dire Gesù, si leccava le labbra «quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole».Gesti e parole che rapisconoLa plasticità del Presepe ha bisogno di essere resa vibrante dalla Parola detta e udita con una carica di affetto pieno di gusto, perfino fisico! Non parole di scena ma l’emergere vivo di un amore, riacceso dallo stare lì, estatico, davanti al Presepio…Forse da questo, nel suo sviluppo raffigurativo, nasce l’inserimento nel Presepe di un personaggio particolare: il Ravì (rapito). In alcune raffigurazioni medioevali è lo stesso Giuseppe o uno dei pastori, in seguito nello scenario apparirà proprio una statuina speciale che raffigura quest’uomo preso, rapito tutto, mentre guarda «con gli occhi del corpo». Ricordo un gelido gennaio del 1989 quando nella Lituania, da poco libera, mi trovai, anch’io meravigliato, di fronte a uno sviluppo fisico ancora più intenso di questo personaggio. Tra la balaustra e il presepe, per terra, vidi qualcosa di cui non mi capacitavo… Poi la guida mi spiegò: erano uomini che restavano lì distesi per ore ed ore, sul pavimento gelido, in venerazione-adorazione del nato-Messia.Fare il PresepeÈ questa intensità che fa scaturire la spinta e la capacità di fare il proprio presepe.Se, guardando, ti si stampa qualcosa nell’animo, ciò mette in moto una creatività quasi incontenibile: in maniera nuova e personale vuoi ridire le stesse cose. Ed ecco il presepe anche in famiglia, di padre in figlio o da nonno a nipote…Semmai c’è da tirare fuori le solite statuine piene di anni e un po’ sbeccate, ma il presepe sarà nuovo ogni anno. Non solo per come esse saranno disposte, ma perché descriveranno il cuore, l’anima, le attese, le speranze di chi lo compone.Come a Greccio, così in ogni casa, parrocchia, piazza o scuola: ognuno esprime se stesso e porta le sue cose davanti a quel Bambino. Dai maestosi presepi napoletani, a quelli minuscoli in un guscio di noce, nelle coloratissime figure latino-americane, o dentro una zucca…E può continuare ad accadere, nel cuore di qualcuno, quanto racconta Tommaso da Celano: il fanciullo Gesù veniva resuscitato nei cuori di molti che l’avevano dimenticato e il ricordo di lui rimaneva impresso profondamente nella loro anima (Fonti Francescane 470).Le statuine varieranno dal gesso alla resina, le casette dal legno al polistirolo, i paesaggi dal muschio di bosco all’erba sintetica… ma il voler vedere davvero (con gli occhi del corpo) immette e coglie nel presepe quella «Vita che si è resa visibile» e che non possiamo fare a meno di annunciare «perché anche voi siate in comunione con noi» ( 1 Gv, 1,2).Duemila anni fa a Betlemme, ottocento anni fa a Greccio… Allora come oggi: fare presepe, segno o realtà?!

*Rodolfo Cetoloni

Vescovo emerito di Grosseto