Opinioni & Commenti

Bene comune, equivoci da evitare

di Marco Doldi

Di bene comune si parla molto, non senza qualche equivoco. Ad esempio, c’è chi lo fa coincidere con la somma dei beni individuali. In realtà, il bene comune è tale in quanto riferito alla persona e non all’individuo. Sottigliezza terminologica? No, perché nell’accezione comune «individuo» rimanda a un orizzonte, in cui ciascun uomo cercherebbe di conquistare il maggior numero di benefici possibili, il più delle volte a scapito dell’altro. «Persona», termine tanto caro al pensiero cristiano, dice molte più cose: l’uomo è un essere in relazione con Dio e con il prossimo; egli si realizza secondo un progetto trascendente e spirituale, dove ciò che è bene per uno è bene per tutti; egli è alla ricerca di una realizzazione di sé, che avviene accanto all’altro e, talvolta, a favore dell’altro. Soprattutto il «bene» non è dato in riferimento alla materialità dell’uomo, ma in riferimento alla dimensione, insieme, spirituale e fisica della persona. Lo ha ricordato Benedetto XVI, ricevendo il 21 settembre i partecipanti all’incontro promosso dall’Internazionale democratica di centro e democratico cristiana; egli ha denunciato come vi sia «in campo economico una tendenza che identifica il bene con il profitto». Invece, il vero bene – il capitale – si definisce in riferimento alla persona: al lavoratore, come all’imprenditore. Il profitto di una impresa, prima che essere di ordine economico, è di ordine umano ed emerge da alcuni parametri tipici della persona: condizioni del lavoro, realizzazione umana del lavoratore, realizzazione di chi vi impiega il proprio ingegno e le proprie conoscenze, orari non concorrenziali alla famiglia, capacità di reinvestimento per migliorare la qualità del lavoro, adeguato tempo libero, ecc. Elementi che non sono monetizzabili, ma che dicono il successo di una impresa.

Il bene comune è un argomento di attualità, al quale la Chiesa italiana dedicherà in ottobre la 54ª Settimana Sociale. Qui la fede offre un contributo irrinunciabile, perché sollecita a instaurare una società dove si realizzi il disegno di Dio, quello di fare degli uomini un’unica famiglia umana, una prospettiva che ora spinge a cercare un modello di convivenza dove l’uomo realizzi se stesso nella logica del dono e dove nessuno avverta il prossimo come un potenziale nemico. La ragione permette di giungere all’individuazione di alcuni capisaldi, capaci di garantire l’attuazione del disegno di Dio; sono principi che appartengono, ormai, al patrimonio dell’umanità: la libertà, la dignità, l’unità e l’uguaglianza delle persone; il benessere sociale, attraverso la giustizia; la pace e la stabilità e la sicurezza del vivere comune. Le esigenze del bene comune non sono altro che la declinazione sociale di valori etici fondamentali. Questi principi non sono, però, ancora sufficienti: se venissero applicati immediatamente ai problemi della vita presente, porterebbero a soluzioni parziali o di segno opposto. Si giungerebbe, per esempio, a considerare il benessere e il progresso semplicemente secondo parametri economici o utilitaristici.

C’è bisogno di un fondamento antropologico: prima di dire che cosa sia il bene per l’uomo in questo momento, occorre rispondere alla domanda fondamentale chi sia l’uomo. E, su questo, fede e ragione offrono uno sguardo davvero ricco e completo, perché invitano a tener presente la dimensione ultima della persona, laddove emerge il buon progetto di Dio. Perché creato ad immagine di Dio, l’individuo umano ha la dignità di persona; non è soltanto qualche cosa, ma qualcuno, capace di conoscersi, di possedersi, di liberamente donarsi e di entrare in comunione con altre persone. Solo quando i principi morali si fondano sulla antropologia trascendente, sono autentici valori e contribuiscono alla realizzazione della persona e al conseguimento del bene comune.