Pisa

CAMP DARBY: QUARANTA DIPENDENTI A CASA

di  Andrea Bernardini

Quaranta dipendenti di Camp Darby – in servizio nel dipartimento dell’Us Army – dallo scorso lunedì 2 ottobre a casa: il governo americano, infatti, ha deciso di far a meno di falegnami, elettricisti, caldaisti, frigoristi, geometri, ragionieri da alcuni giorni iscritti alle liste di collocamento.

Mille ettari di pineta toscana, alle spalle di Tirrenia: è qui che, nel 1947, si «accamparono» i militari americani. Il governo De Gasperi concesse loro questo lembo di terra nel 1951, in base ad un trattato bilaterale sottoscritto dal ministro degli Interni Randolfo Pacciardi.

Il sito militare fu dedicato a William Orlando Darby, un brigadiere generale fondatore del corpo dei Rangers, ucciso da artiglieria nemica il 30 aprile del 1945 sulle rive del Lago di Garda.

La vicinanza di un canale navigabile – il canale dei Navicelli – capace di collegare la struttura con il mare ed il porto di Livorno. L’aeroporto civile e militare di Pisa ad un tiro di schioppo. La rete ferroviaria che entra fin dentro la base. La superstrada e l’autostrada a poche centinaia di metri, hanno fatto «innamorare» l’esercito Usa di questo luogo.

Qui gli States «ricoverano» mezzi (jeep, carri armati, hammer ) utilizzati sui «fronti» di tutto il mondo, per rimetterli a nuovo.

Da qui, in poco tempo, possono partire verso l’Europa, il Mediterraneo, il Nordafrica ed il Medioriente i mezzi necessari alle brigate dispiegate in zona operativa.

A Camp Darby vivono, per diverse ore al giorno, poco meno di un centinaio di militari a stelle e strisce.

All’interno del recinto si trovano molte palazzine (sono 136 secondo il rapporto «Base structure report» 2005). E poi una piscina, impianti da calcio, da basket, da tennis, due bar, due piccoli centri commerciali, un campeggio – attrezzato con tende e bungalow – un albergo, una mensa. Un tempo esisteva anche un liceo, non più utilizzato.

Sul litorale pisano, i militari statunitensi, i loro familiari ed i loro amici dispongono anche dell’American Beach, l’unica spiaggia statunitense in Europa.

In oltre sessant’anni di storia, la presenza di Camp Darby ha diviso l’opinione pubblica. C’era chi lo vedeva come un «baluardo» a difesa di una eventuale offensiva del «blocco comunista». E, chi, forse per la stessa ragione, non sopportava l’idea di questa «ingerenza».

Poi la caduta del muro di Berlino modificò gli equilibri internazionali.

I giovani Enrico Letta e Simone Guerrini, consiglieri comunali democristiani, all’inizio degli anni Novanta, chiesero pubblicamente quale fosse il senso di questo insediamento militare, una volta archiviato il periodo storico della «guerra fredda». Per questa loro iniziativa furono «bacchettati» dai vertici provinciali del partito. Ma la stessa domanda è stata formulata da altri più volte in questi anni. Più volte i movimenti pacifisti hanno manifestato di fronte alla base militare americana, chiedendone la conversione ad uso civile. L’ultimo caso, nel 2003, durante l’intervento armato in Iraq.

Amata forse no (o almeno non da tutti), tollerata sì. Perché la base militare di Camp Darby «produce» ricchezza per il territorio. Ancor oggi lavorano nel presidio Usa circa 450 italiani (ma in passato sono stati almeno il doppio), mentre altre duecento persone offrono servizi alla base. La maggior parte dei soldati, fuori dall’orario di lavoro, vive con la propria moglie e i propri figli in appartamenti affittati nelle periferie di Pisa e di Livorno. In estate, poi, Camp Darby richiama sul litorale pisano un buon numero di villeggianti statunitensi.

Ecco perché, quando negli anni il comando Usa ha deciso di tagliare parte del personale civile, gli amministratori locali si sono sempre mostrati molto preoccupati.

Così è accaduto anche nel recente passato. La mattina del 12 gennaio 2012 a Roma l’ambasciata americana ha annunciato ai sindacati una riduzione – entro il 30 settembre – dei militari, dei civili statunitensi e dei civili italiani in servizio a Camp Darby ed alla caserma Ederle di Vicenza. A Vicenza i 71 esuberi annunciati, in realtà, sono stati riassorbiti nella nuova base Dal Molin, dove anzi saranno assunti altri civili italiani.

A Camp Darby, invece, la paura dei tagli si è fatta, con il passare dei giorni, più concreta, anche perché la base, con la soppressione dell’unità funzionale «Garrison», ha perso la sua autonomia, divenendo «satellite» della caserma vicentina.

A maggio 160 dipendenti hanno ricevuto una lettera di licenziamento, anche se, da subito, poco meno di un centinaio tra loro sono stati recuperati in «posti vacanti» sempre all’interno della base.

Nel contempo il comando dell’unità AFSBn – Italy (Army Field Support Battalion) ha annunciato sul sito di Camp Darby la volontà di assumere 54 meccanici: nuove commesse, provenienti dai diversi teatri operativi, infatti, stanno per arrivare e ci sarà bisogno di altro personale. Ad oggi solo una parte dei nuovi meccanici è entrata in servizio.

Quanto agli esuberi, a 38 dipendenti è stato proposto di mantenere il proprio lavoro, ma trasferendosi a Vicenza, a 365 km da casa. Ridicolo l’incentivo alla trasferta: un euro a giorno lavorativo, ma solo per il primo anno. Solo in sette hanno accettato.

I più si sono rivolti all’avvocato, impugnando il licenziamento individuale.

I legali della Cisl – l’avvocato Umberto Cerrai ed i suoi collaboratori – hanno denunciato il governo americano, e dunque il suo presidente pro-tempore, Barak Obama, responsabile ultimo delle decisioni dei vertici del comando, per comportamento antisindacale. Secondo gli esperti, la procedura di licenziamento dovrebbe seguire la legge italiana. Lo dice la convenzione tra gli Stati membri del trattato nord-atlantico sullo statuto delle loro forze armate (Londra, 19 luglio 1951) e il memorandum d’intesa tra Ministero della Difesa italiano e il Dipartimento della difesa degli Usa relativo alle installazioni concesse in uso alle forze statunitensi in Italia (2 febbraio 1995).

Tutto ciò è avvenuto? Secondo i sindacati, no. «Nella procedura dei licenziamenti – lamenta il segretario generale della Fisascat/Cisl Vittorio Salsedo – non siamo stati coinvolti».

La «versione» dei militari Usa, invece, non è nota, perché il comando di Vicenza – di cui Camp Darby è satellite – ha scelto il silenzio nei confronti dei mezzi di comunicazione.

All’udienza convocata dal giudice Elisabetta Tarquini lo scorso 27 settembre per discutere del ricorso della Cisl, il governo americano non si è presentato. Né i legali hanno potuto dimostrare che il governo avesse effettivamente ricevuto la citazione, perché, a distanza di cento giorni dall’invio della raccomandata, non era ancora tornata indietro la ricevuta di avvenuta consegna.

Al giudice del lavoro non è rimasto che aggiornare la nuova udienza al 16 di ottobre. Nel frattempo, però, i licenziamenti – che il giudice avrebbe potuto bloccare se avesse riconosciuto le ragioni del sindacato – sono ormai divenuti esecutivi.

A niente è servita la mediazione delle istituzioni. Regione e Provincia di Pisa che si erano resi disponibili, ad esempio, ad attivare gli ammortizzatori sociali per gli esuberi.

L’ultimo giallo di questa intricata vicenda si è verificato nelle ore immediatamente precedenti il licenziamento: quando i 40 dipendenti destinati a far le valigie, sono stati convocati in direzione. Chi ha firmato un verbale di accordo, rinunciando ad ogni ulteriore azione legale contro il governo americano, ha ricevuto un exit bonus di 18mila euro lordi. Ma al momento della firma doveva esser presente anche un sindacalista. E poiché Cisl quell’accordo non l’aveva firmato, chi voleva prender visione del documento, ha dovuto farsi rappresentare dall’altro sindacato, la Uil.