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CANTINI: Dopo di lui la guerra non ha più scuse

di Romanello Cantini

Le esigenze di umanità ci impongono oggi di andare verso la assoluta prescrizione della guerra». Così si esprimeva Papa Wojtyla nel suo discorso al corpo diplomatico del 12 gennaio 1991. Mancavano quattro giorni all’inizio della guerra del Golfo e mai Papa, nonostante i grandi progressi compiuti dal pacifismo cattolico da Benedetto XV a Giovanni XXIII, si era espresso con una interdizione così categorica nei confronti della guerra. Questo rifiuto di un conflitto armato il Papa lo avrebbe ripetuto di fronte ad altre guerre che avrebbe visto esplodere durante il suo pontificato: quella del Kossovo nel 1999 e infine quella contro l’Iraq di due anni fa. Il suo rifiuto della guerra non era uno stare a guardare e un assolvere l’ingiustizia. «Per mettere un termine a questa sanguinosa guerra fratricida – disse il Papa a Sarajevo – ho tutto tentato, ho bussato a tutte le porte». La causa della pace, disse ancora nel suo discorso all’Onu di venticinque anni fa, può essere vinta «attraverso la definizione, il riconoscimento e il rispetto degli inalienabili diritti delle persone e delle comunità dei popoli». Dalla diplomazia frugata in tutte le sue possibilità alla lotta contro la miseria e l’emarginazione ogni surrogato della guerra era non solo possibile, ma doveroso per dare una risposta ai problemi. Né nella condanna dei conflitti c’erano eccezioni o violenze veniali. Già a Puebla, un anno dopo essere stato eletto, aveva condannato la guerriglia e a Daugheda in Irlanda il terrorismo, anche se travestito da una presunta ragione cattolica. Solo di fronte alla fame in Somalia e poi di fronte alla tragedia della Bosnia il Papa sembrò concedere la possibilità di quella che già allora veniva chiamata «ingerenza umanitaria» e che venne definita come «non un intervento di tipo militare, ma ogni tipo di azione che miri ad un disarmo dell’aggressore». E il Papa pensava probabilmente a corridoi umanitari, a convogli protetti, a aree di sicurezza, a schieramenti di interposizione. Ma la pace è stata per Giovanni Paolo II soprattutto dialogo. I suoi viaggi, il suo pontificato itinerante, sono stati in fondo la metafora di un Papa che non difendeva più le mura leonine ma le legittime ragioni che ci sono ovunque nel mondo. Papa Wojtyla ha ripreso, trenta anni dopo la Pira, l’idea che le religioni devono fare non solo la pace fra loro, ma la pace del mondo. Gli incontri di Assisi sono stati in fondo una universalizzazione dei Colloqui Mediterranei anche al di là dei tre monoteismi. Con degli strumenti – la preghiera e il digiuno – che sarebbero piaciuti a Gandhi. Essi completavano quello che era stato fatto con il viaggio a Casablanca, nel Libano e in Siria, con la visita alla sinagoga di Roma, con il biglietto infilato nel Muro del Pianto. Il Papa che ci ha lasciato non ha evitato le guerre. Ma, come minimo, le ha rese più costose politicamente per la solitudine morale in cui ha posto sempre più chi le intraprende. E l’eco universale della sua morte ha dimostrato che a lui e, attraverso di lui, alla sua Chiesa, alle minoranze cristiane in pericolo, è stato risparmiato il veleno più inquinante della guerra che è l’odio e riconosciuto, anche dai più diffidenti, rispetto e gratitudine.