Cet Notizie

Cei, prolusione del card. Bagnasco (10 marzo 2008)

Pubblichiamo il testo integrale della Prolusione del card. Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, in apertura dei lavori del Consiglio permanente della Cei (Roma 10-13 marzo 2008)Venerati e Cari Confratelli,

ci ritroviamo a distanza di poche settimane dall’ultima sessione. Mentre i temi allora trattati non sono certo passati di attualità, nuova è la cornice liturgico-spirituale in cui noi li collochiamo. Il tempo di Quaresima, infatti, interpella noi e tutti i credenti in ordine ad una conversione che per essere vera deve riguardare tutta la persona, a partire dal cuore in senso biblico, e quindi deve toccare gli orizzonti di senso, i criteri di giudizio, le scelte concrete. Chiediamo al Signore di trascorrere in stretta unione con Lui, e in autentica comunione tra noi, queste giornate di lavoro, così da adempiere con fedeltà il nostro comune servizio al Popolo di Dio che è in Italia.

1. Ciascuno di noi ha appena lasciato le rispettive Diocesi e possiamo testimoniare che le nostre Chiese sono fervidamente impegnate a vivere questo tempo forte orientato alla Pasqua, cuore del mistero cristiano. I binari sono quelli provvidenzialmente prospettati dal Santo Padre, Pastore universale, che nella sua cura per l’intero Popolo di Dio ha voluto indirizzare un Messaggio dedicato quest’anno alla pratica cristiana dell’elemosina: questa, “avvicinandoci agli altri, ci avvicina a Dio e può diventare strumento di autentica conversione e riconciliazione con Lui e con i fratelli” (Messaggio per la Quaresima, n. 4, 29 gennaio 2008). Il Papa non trascura un riferimento alle ricchezze materiali che così tanto suggestionano l’uomo, per affermare quanto “netta debba essere la nostra decisione di non idolatrarle”. In tal modo, insieme alla preghiera e al digiuno, “l’elemosina ci aiuta a vincere questa costante tentazione, educandoci a venire incontro alle necessità del prossimo e a condividere con gli altri quanto per bontà divina possediamo”. Infatti, è il pensiero delle “moltitudini che soffrono nell’indigenza e nell’abbandono” il termine di riferimento su cui modellare la nostra condivisione e la nostra solidarietà. (Ib. n. 2)

Sorge da qui la benedetta prassi delle collette o raccolte speciali che, particolarmente in questo periodo, si promuovono all’interno delle singole comunità, e attraverso le quali si vuole corrispondere alle necessità dei fratelli vicini e lontani. E dunque è l’attività della Caritas quella che specialmente viene beneficiata, così come sono i gemellaggi con i missionari presenti nei vari continenti ad essere rinvigoriti. è un risveglio sempre rigoglioso, questo che puntualmente si verifica in ogni Quaresima, e per il quale ci uniamo al rendimento di grazie a Dio, espresso dal Papa stesso in un’altra recente occasione: “sono molti i cristiani che spendono tempo ed energie per far giungere non solo aiuti materiali, ma anche un sostegno di consolazione e di speranza a chi versa in condizioni difficili (…) Non dobbiamo dimenticare – aggiungeva il Pontefice – che le opere di carità costituiscono un terreno privilegiato di incontro anche con persone che ancora non conoscono Cristo o lo conoscono solo parzialmente” (Discorso ai Partecipanti alla Plenaria del Pontificio Consiglio “Cor Unum”, 29 febbraio 2008). Davvero l’attività caritativa occupa e deve sempre più occupare un posto centrale nella missione evangelizzatrice delle nostre Chiese (cfr. Ib.). è noto peraltro come i singoli Vescovi siano soliti “calare” nella loro specifica realtà le indicazioni pastorali proprie di questo periodo. In tal modo, non solo si orientano verso obiettivi concreti e affettivamente “prossimi” le offerte raccolte, ma si specificano ulteriormente e creativamente gli impegni tipici della Quaresima, a partire da quello di una più intensa vita sacramentale, la preghiera, l’ascolto della Parola, l’ascesi.

In questo contesto, non possiamo non ricordare espressamente i nostri amati sacerdoti e i diaconi: essi sono i nostri primi e insostituibili collaboratori. Mentre rinnoviamo loro la nostra paterna stima e sincera gratitudine, sollecitiamo noi e loro a continuare con decisione in quel cammino di formazione permanente che si attua in ogni Diocesi e che la Chiesa ci chiede per rinnovare il dono ricevuto attraverso l’imposizione delle mani (cfr 2Tm 1,6), e insieme alimentare e sostenere la gioia della nostra vocazione e missione.

2. Questo dinamismo pastorale, che ciclicamente si intensifica volendo sempre più affinarsi per la causa del Regno, riflette la Chiesa che, nella sua dimensione più autentica, non è mai pienamente misurabile attraverso ricerche sociologiche o rilevazioni demoscopiche. Pur rispettando, e noi stessi spesso valorizzando, il lavoro dei sociologi che in modo ricorrente procurano di soppesare il “gradimento” della Chiesa, non dobbiamo mai dimenticare quel “quid” che è l’azione del mistero cristiano nelle anime. Certo che i criteri scientifici di queste misurazioni contano, e non tutti hanno ovviamente lo stesso valore; tuttavia sappiamo che, anche quando li si applicasse con metodo e rigore, si deve mettere in conto – dice Gesù a Nicodemo − che lo Spirito di Dio, come “il vento, soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va” (Gv 3,8). La vera Chiesa, la Chiesa del profondo, diremo con Romano Guardini (cfr. La realtà della Chiesa, Morcelliana 1967, rist. 2004, pag. 21 e ss.), è quella delle anime: al suo risveglio noi operai del Vangelo ci dedichiamo senza tregua, contando tuttavia − e primariamente affidandoci − sul lavoro della Grazia.

3. Incontrando il 24 gennaio scorso i Vescovi della Slovenia, Benedetto XVI annotava: “Il secolarismo di impronta occidentale, diverso e forse più subdolo di quello marxista, presenta segni che non possono non preoccuparci” (Discorso in occasione della Visita ad Limina, 24 gennaio 2008). Questi segni preoccupanti, noi nei Paesi Occidentali, li conosciamo bene! Non è un caso che la nostra Conferenza fin dagli anni Settanta abbia voluto rifletterci, e da allora non abbia mai smesso di interrogarsi su questa sfida, che si pone a diversi livelli e in varie direzioni, come si è cercato di approfondire nei successivi Orientamenti pastorali che la Chiesa italiana si è data. Ma certamente vale anche per noi l’esortazione riassuntiva del Papa ai confratelli sloveni: “bisogna rispondere alla cultura materialistica ed edonistica con una coerente azione evangelizzatrice che parta dalle parrocchie: è infatti dalle comunità parrocchiali, più che da altre strutture, che possono e devono venire iniziative ed atti concreti di testimonianza cristiana” (Ib). Parrocchie e diocesi che, nel quadro di una pastorale integrata, si lasciano arricchire dalla presenza vivificante dei movimenti e delle aggregazioni ecclesiali, in ordine all’unica e multiforme missione della Chiesa (cfr. Benedetto XVI, Omelia dell’Incontro con i movimenti ecclesiali e le nuove comunità, 3 giugno 2006).

Si situa in questo contesto l’impegno educativo che tradizionalmente le nostre Chiese sviluppano tra i giovani: ne è prova il movimento pastorale che è sorto dalle Giornate mondiali della Gioventù, felicemente scaturite dalla mente e dal cuore di Giovanni Paolo II, e che Benedetto XVI ha infatti continuato a sviluppare. In questa stagione, i nostri giovani stanno capillarmente preparandosi alla XXIII Giornata mondiale di Sydney, che ha come tema: “Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni” (At 1,8). Per la prima volta, il seme delle Gmg toccherà il continente nuovissimo, l’Australia, verso cui per decenni mossero i loro passi migliaia e migliaia di nostri emigranti, che ora con i loro discendenti costituiscono una componente importante della grande nazione. La lontananza di quella terra rispetto all’Italia permetterà probabilmente una partecipazione italiana più circoscritta, ma non meno convinta e non meno calorosa che in altre occasioni: i nostri giovani ci saranno, e noi Vescovi − per quanto possibile − li accompagneremo con gioia. Accoglieremo come preziosa la testimonianza che ci verrà dai giovani degli altri Paesi e offriremo con umiltà la nostra. Come italiani, reduci dall’indimenticabile Agorà di Loreto, abbiamo un dovere più grande di accompagnare fin laggiù il Papa, e di sostenerlo con il nostro affetto. Naturalmente chi rimarrà nelle proprie città seguirà, attraverso il collegamento assicurato dai nostri media, l’evento in tutto il suo sviluppo, cercando di farne un’occasione dilatata di crescita e di missione.

“La sete di Dio c’è”, diceva il Papa, parlando a braccio, nell’incontro quaresimale con il clero di Roma, il 7 febbraio scorso. In quella circostanza, egli ha partecipato una confidenza raccolta nelle visite ad limina da un Vescovo proveniente da “un paese dove più del cinquanta per cento si dichiara agnostico”, ma dove “in realtà tutti hanno sete di Dio. Nascostamente esiste questa sete”. E il Papa aggiungeva: “Perciò prima cominciamo noi, con i giovani che possiamo trovare …, impariamo l’amicizia con Gesù. E così pieni di questa gioia e di questa esperienza, possiamo anche oggi rendere presente Dio in questo nostro mondo”.

4. Nella stessa allocuzione tenuta ai Vescovi della Slovenia, il Santo Padre faceva un’annotazione interessante: “Gli umanesimi non sono tutti uguali, né sono equivalenti sotto il profilo morale”. Rilevazione che, se per noi è chiara sotto ogni evidenza, stenta però a trovare consapevoli riscontri nella cultura pubblica dell’Occidente, dove qualunque idea sembra legittimata, anche la più bizzarra e disarcionante la persona. E non ci riferiamo tanto all’orizzonte religioso, quanto piuttosto a quello etico-sociale. “A seconda della visione di uomo che si adotta – rifletteva il Papa – si hanno conseguenze diverse per la convivenza civile. Se, per esempio, si concepisce l’uomo, secondo una tendenza oggi diffusa, in modo individualistico, come giustificare lo sforzo per la costruzione di una comunità giusta e solidale?” (Ib.). A noi pare che una connessione, così logicamente ovvia e così pragmaticamente inesorabile, sia in modo incomprensibile lasciata scivolar via da troppe cattedre di cultura. Chi non vede che c’è un nesso stringente tra le ipotesi educative circolanti e l’edificio sociale che di fatto si va a costruire? Chi non coglie che oggi “troppe incertezze e troppi dubbi … circolano nella nostra società e nella nostra cultura”, per cui “diventa difficile così proporre alle nuove generazioni qualcosa di valido e di certo, delle regole di comportamento e degli obiettivi per i quali meriti spendere la propria vita” (Benedetto XVI, Discorso per la consegna alla diocesi di Roma della Lettera sul compito urgente dell’educazione, 23 febbraio 2008)? Infatti, non è con i sogni declamati che si costruisce una società nuova e migliore, né con le requisitorie saccenti o le suggestioni vaghe quanto utopiche, ma con i percorsi educativi, con la serietà e l’assiduità delle proposte, con la testimonianza dei maestri, con la severità e lo sforzo diuturno che è proprio di ogni conquista. La vaghezza dell’impegno morale, la fragilità o la banalità di troppe proposte pseudo-educative certamente non permettono quell’urgente e positivo impegno dell’educazione che, quando viene meno, porta anche alla disaffezione verso la comunità e alle appartenenza deboli che ne derivano. Guai, tuttavia, a cedere anche noi al virus della sfiducia. Notava il Santo Padre parlando alla sua diocesi di Roma: “anche nel nostro tempo educare al bene è possibile, è una passione che dobbiamo portare nel cuore, è un’impresa comune alla quale ciascuno è chiamato a recare il proprio contributo” (Ib.).

Nel messaggio per la Giornata delle Comunicazioni sociali 2008, Benedetto XVI ha posto con grande acutezza una serie di interrogativi che il sistema mediatico-culturale dovrebbe non aver fretta di scrollarsi di dosso. “Con il pretesto di rappresentare la realtà, di fatto si tende a legittimare e ad imporre modelli distorti di vita personale, familiare e sociale… Oggi in modo sempre più marcato, la comunicazione sembra avere talora la pretesa non solo di rappresentare la realtà, ma di determinarla grazie al potere e alla forza di suggestione che possiede.” (Messaggio per la 42° Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, 24 gennaio 2008, nn. 2 e 3). Per questo bisogna che si diffonda la consapevolezza di essere oggi tutti insieme, come comunità nazionale, anzi come Occidente intero, di fronte ad un bivio: salvare e sviluppare le virtualità del progresso, scongiurando le “possibilità abissali di male − possibilità che prima non esistevano” (Spe salvi, n. 22). Già nell’ultima prolusione evocavo quella necessaria “autocritica dell’età moderna in dialogo con il cristianesimo” che Benedetto XVI pone come condizione di riscatto. Questa autocritica diventa inesorabile dinanzi alle produzioni mediatiche e al fascino che queste esercitano sull’uomo contemporaneo. “Proprio perché si tratta di realtà che incidono profondamente su tutte le dimensioni della vita umana (morale, intellettuale, religiosa, relazionale, affettiva, culturale), ponendo in gioco il bene della persona, occorre ribadire – diciamo con il Papa – che non tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche eticamente praticabile” (Messaggio cit., n. 3). è qui che noi vogliamo leggere i ripetuti allarmi lanciati dagli organismi competenti circa l’inevitabile impatto della televisione come di internet sulla coscienza in formazione dei minori.

5. La deregulation educativa trova oggi qualche singolare corrispettivo nell’attenzione non sempre adeguata che le nostre società occidentali, complesse e fortemente influenzate dalle dinamiche dell’efficienza e della produttività, prestano alle persone fragili, ai malati inguaribili, a quelli terminali, e alle rispettive famiglie, che rischiano nei momenti di più acuta difficoltà, di essere travolte (cfr. Benedetto XVI, Discorso ai Partecipanti al Congresso indetto dalla Pontificia Accademia per la vita, 25 febbraio 2008). Un simile squilibrio lo si può talora rilevare nell’andamento delle ricerche scientifiche applicate alla struttura dell’uomo. Deve essere chiaro che la Chiesa ha stima e fiducia nella scienza, come ha stima per quanti si applicano ad indagare l’inconosciuto; e non potrebbe essere diversamente in quanto la scienza è una delle vie fondamentali per conoscere la straordinarietà del creato e avvicinarsi all’insondabile sapienza del Creatore. E tuttavia nei laboratori della vita è stata da tempo “infranta la barriera posta a tutela della dignità umana”. Lo osservava di recente il Papa, spiegando: “Quando esseri umani, nello stato più debole e più indifeso della loro esistenza, sono selezionati, abbandonati, uccisi o utilizzati come puro «materiale biologico», come negare che essi siano trattati non più come un «qualcuno», ma come un «qualcosa», mettendo così in questione il concetto stesso di dignità dell’uomo?” (Discorso alla Congregazione per la Dottrina della Fede, 31 gennaio 2008). E perché il segnalare questa condizione azzardata, di rischio oggettivo, deve essere scambiato per oscurantismo? Per ostilità verso la scienza? Per ottusa resistenza verso il moderno? Forse che in qualche parte si possono scardinare i perni essenziali dell’umano, senza che tutti ne paghino le conseguenze? Ebbene, i due criteri fondamentali sono: “a) il rispetto incondizionato dell’essere umano come persona dal suo concepimento fino alla morte naturale; b) il rispetto dell’originalità della trasmissione della vita umana, attraverso gli atti propri del coniuge” (Ib.). Riproporli allora, oltre che essere connesso al nostro compito, appartiene al linguaggio dell’amicizia: l’amico non può non segnalare un pericolo, non può non essere preveggente e precauzionale. Per questo, ricordare la via maestra del generare non deve essere letto come un gesto di ostilità verso chicchessia.

Come non può esserlo il ribadire con pacate argomentazioni che nel rapporto uomo-donna l’umano gioca se stesso e il suo realistico futuro. Nei giorni scorsi, per iniziativa del Pontificio Consiglio dei Laici, è stato ricordato il ventesimo anniversario della Mulieris dignitatem, profetico testo di Giovanni Paolo II. Ebbene, in quell’occasione non si poteva non rimirare l’armonia dell’unità-duale dell’uomo e della donna, quale criterio di dignità per ogni persona, che in questa chiave evita qualsiasi impoverimento, ma anche ogni differenza abissale e conflittuale (cfr. Giovanni Paolo II, Lettera alle donne, n. 8). A tale riguardo, Benedetto XVI osservava che “persiste ancora una mentalità maschilista, che ignora la novità del cristianesimo, il quale riconosce e proclama l’eguale dignità e responsabilità della donna rispetto all’uomo” (Discorso ai partecipanti al Convegno per i vent’anni della Mulieris dignitatem, 9 febbraio 2008). Per questo, dinanzi a fenomeni di discriminazione e umiliazione della donna “più urgente appare l’impegno dei cristiani, perché diventino dovunque promotori di una cultura che riconosce alla donna, nel diritto e nella realtà dei fatti, la dignità che le compete” (Ib.).

6. Com’è noto, nelle settimane scorse è arrivata a rapida conclusione la quindicesima legislatura della storia della nostra Repubblica. Passaggio non facile, come si è capito dalle parole spese per l’occasione dal Presidente della Repubblica. Nel decreto, successivamente emanato dal Governo, sono state fissate per il 13/14 aprile le elezioni politiche, a cui è stata poi associata l’elezione dei consigli regionali della Sicilia e del Friuli Venezia Giulia, dei consigli provinciali di tredici Province e dei consigli comunali di oltre cinquecento Comuni, grandi e piccoli. Non è, questo, un campo di pertinenza della Chiesa come tale. A noi Vescovi può essere chiesto di dire una parola sull’atteggiamento interiore con cui il Paese si accinge ad affrontare questo appuntamento, tra i più alti del costume democratico. In questa prospettiva, auspichiamo che la circostanza si riveli un’occasione di crescita morale e civile. E può realmente accadere se, nelle circostanze date, e pur nell’inevitabile dialettica connessa agli appuntamenti elettorali, la comunità nazionale impara a volersi più bene, e a voler bene al proprio futuro. Se il Paese prende coscienza che c’è uno zoccolo comune che unisce tutti prima delle fisiologiche diversità e delle inevitabili competizioni. è infatti la consapevolezza di appartenere ad un destino comune che può proficuamente ispirare i comportamenti di ciascuno, e può motivare l’affezione e lo slancio partecipativo alla cosa pubblica. L’Italia ha bisogno di un soprassalto di amore per se stessa, per ricomprendere le proprie radici e dare slancio al proprio avvenire, interpretando adeguatamente il proprio compito nel concerto delle nazioni. Facciamo in modo dunque che risalti la civiltà della politica, e le sue acquisizioni volte al rispetto della persona e allo sviluppo della comunità.

Va da sé dunque che la Chiesa non prende “nelle sue mani la battaglia politica” (cfr. Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 28). E quindi confermiamo la linea di non coinvolgimento, come Chiesa, e dunque come clero e come organismi ecclesiali, in alcuna scelta di schieramento politico o di partito: linea che già ci ha caratterizzato nelle precedenti consultazioni. Questo non coinvolgimento è, a ben guardare, il contrario del disinteresse e del disimpegno, ma è un contributo concreto alla serenità del clima, al discernimento meno distratto, alla concordia degli animi.

Inoltre, questo atteggiamento complessivo della Chiesa – come diceva Giovanni Paolo II al Convegno ecclesiale di Palermo – “non ha nulla a che fare con una «diaspora» culturale dei cattolici, con il loro ritenere ogni idea o visione del mondo compatibile con la fede” (Discorso al 3° Convegno ecclesiale della Chiesa italiana, Palermo, 23 novembre 1995). L’irrilevanza della fede non può essere un obiettivo dei credenti, ai quali “come cittadini, sotto la propria responsabilità”, spetta “un compito della più grande importanza”, in rapporto “alle grandi sfide nelle quali porzioni della famiglia umana sono maggiormente in pericolo: le guerre e il terrorismo, la fame e la sete, alcune epidemie terribili…”. Così precisava Benedetto XVI al Convegno ecclesiale di Verona, dove ha subito aggiunto: “Ma occorre anche fronteggiare, con pari determinazione e chiarezza di intenti, il rischio di scelte politiche e legislative che contraddicono fondamentali valori e principi antropologici ed etici radicati nella natura dell’essere umano, in particolare riguardo alla tutela della vita umana in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale, e alla promozione della famiglia fondata sul matrimonio, evitando di introdurre nell’ordinamento pubblico altre forme di unione che contribuirebbero a destabilizzarla, oscurando il suo carattere peculiare e il suo insostituibile ruolo sociale” (Discorso al 4° Convegno ecclesiale della Chiesa italiana, Verona, 19 ottobre 2006). È alla luce di questi valori fondamentali che ognuno è chiamato a discernere, poiché si tratta di valori che costituiscono da sempre l’essere stesso della persona umana.

Interessante notare come entrambi questi Pontefici di origine non italiana, nel parlare ai nostri fedeli e alle nostre Chiese, abbiano sentito il bisogno di richiamare la necessità di una testimonianza aperta e coraggiosa quale “servizio prezioso all’Italia, utile e stimolante anche per molte altre Nazioni” (Benedetto XVI, Ib.; cfr. pureGiovanni Paolo II, Discorso al Convegno ecclesiale di Palermo, n. 8).

7. Non deve d’altronde destare meraviglia o scandalo se la Chiesa ribadisce i valori morali che scaturiscono dalla fede cristiana, e che spesso sono scoperta anche della ragione, la quale – secondo l’esperienza universale – non cessa di indagare su ciò che l’uomo è. Sono questi valori, ad esempio, che hanno ispirato la storia del nostro popolo, la sua civiltà umanistica, i suoi orizzonti di apertura e coesione; e che ad un tempo ne hanno suggerito il comune sentire. Un tesoro, questo, che contribuisce a garantire ancora oggi quell’identità culturale senza la quale si dissolve lo stesso senso di appartenenza sociale, con le virtù che lo contraddistinguono. Ne discenderebbe una cultura non più personalista, ma piegata ad un’ottica individualistica dell’uomo; e questa inevitabilmente produrrebbe riflessi concreti sulla società tutta come sulla quotidiana convivenza tra persone, famiglie e gruppi. E costituirebbe una seria ipoteca rispetto ad una società veramente altruista, non solo rispettosa ma anche solidale.

Non possiamo in questo quadro scordare che la Chiesa apprezza il grande bene della ragione e – soprattutto oggi – la difende sia da pretese razionalistiche, che vorrebbero restringerne gli orizzonti, sia dalla presunzione di certi fideismi che facilmente evitano la fatica del pensare. L’enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II, come gli innumerevoli e puntualissimi interventi di Benedetto XVI sul tema della ragione, i cui spazi vanno allargati, ne sono luminosa testimonianza. Anche per questo motivo, lo accennavo già sopra a proposito della scienza, la Chiesa nutre una grande stima nei riguardi di coloro che indagano senza pregiudizi la verità sul mondo e sull’uomo − il che cosa, il come e il perché – guidati, nella loro ricerca, da una serena e seria ansia per la verità. Sono quei valori dei quali il Concilio Vaticano II ha voluto dare chiara e preziosa sintesi, non senza ricordare che l’Assise conciliare aveva primariamente a cuore “la persona umana”, salvando la quale si edifica l’umana società. “è l’uomo, dunque, ma l’uomo integrale, nell’unità di corpo e anima, di cuore e di coscienza, di intelligenza e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione” (Gaudium et spes, n. 3). In questa logica, il Santo Sinodo metteva l’attenzione su una serie di rischi – che diremmo oggi − non negoziabili, in quanto minano il bene costitutivo della persona, ossia “tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l’integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l’intimo dello spirito; tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni disumane di vita, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni di lavoro (…); tutte queste cose, e altre simili, sono certamente da riprovare e mentre guastano la civiltà umana, ancor più inquinano coloro che così si comportano, che quelli che le subiscono”. (Ib. n. 27). In questa medesima linea, il Concilio ha diffusamente parlato del bene fondamentale e ineguagliabile della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna (cfr Ib. nn. 47-52). Come ha parlato dell’educazione e della sua “estrema importanza”, e della libertà che essa invoca, dedicando a questa un intero documento, la Dichiarazione Gravissimum educationis. Davvero non c’è nulla di improvvisato in quello che la Chiesa oggi ricorda agli uomini e alle donne di buona volontà.

8. Ebbene, sarà ancora consentito a chi come noi, già dal nome (epi-scopos), deve guardare pure lontano, di dire fin d’ora una parola pacata e serena a quanti saranno eletti nel Parlamento della XVI legislatura. E dirla perché non possiamo tacere quello che raccogliamo dalla voce diretta della gente tra la quale e per la quale noi, con i nostri sacerdoti, viviamo, condividendo pure tensioni e sofferenze, fino a subire minacce, come è accaduto anche recentemente a un nostro Confratello in Sicilia, al quale va la nostra solidarietà. Le attese più urgenti e i problemi indilazionabili che la popolazione avverte con crescente disagio e per i quali attende risposte credibili, concrete e rapide. In estrema sintesi e semplificando potremmo parlare del “problema della spesa”. Se da una parte è indicativo che nei programmi delle varie liste si rincorrano, pur con termini diversi, una serie di impegni comunemente avvertiti – dall’aumento dei salari minimi, alla difesa del potere d’acquisto delle pensioni, dall’emergenza abitativa alle iniziative di sostegno della maternità, dalle misure per una maggiore sicurezza nei posti di lavoro, al miglioramento di alcune fondamentali infrastrutture a servizio anche dei pendolari … – dall’altra vorremmo che all’indomani del voto ci fosse una spinta convergente, nel rispetto dei ruoli che il corpo elettorale vorrà assegnare, per affrontare realmente queste situazioni, stando al largo dalle strumentalità e dalle speculazioni, per dare un miglioramento effettivo alle condizioni di vita della parte più consistente della popolazione.

Dobbiamo uscire dall’individualismo, dal pensare egoisticamente solo a se stessi e alla propria categoria nella dimenticanza di tutti gli altri: ce la faremo se anche la politica farà la sua parte. Essa peraltro ha un’insopprimibile valenza di esemplarità. Occorre che il personale politico questo lo tenga presente sempre, abbandonando a sua volta una politica troppo politicizzata, per restituire alla stessa uno spessore etico che solo può fare da collante.

 

Cari Confratelli, a fronte della lunghezza della prolusione precedente, non potevo non essere in questa occasione più conciso. Questo fa guadagnare spazio allo scambio tra di noi e al confronto comune. Fin d’ora tuttavia ci affidiamo alla preghiera che “smaschera gli inganni del tentatore e lo sconfigge” (Benedetto XVI, Omelia alla Celebrazione del Mercoledì delle Ceneri, 6 febbraio 2008): la preghiera, scuola di “formazione intima e spirituale che, dall’incontro con Cristo, fa scaturire quella sensibilità d’animo che sola permette di conoscere fino in fondo e soddisfare le attese e i bisogni dell’uomo” (Benedetto XVI, Discorso cit. a Cor Unum). La preghiera che è respiro dell’anima, e per questo in grado di trasformare l’esistenza, modellandola sul Vangelo del Signore. Maria, la Vergine Madre, interceda per noi presso il Figlio Gesù, nostra Pasqua.

 Angelo Card. Bagnasco