Opinioni & Commenti

Chiesa e polemiche: reggere e correggere

di Franco Vaccari

Le vicende della Città del Vaticano tengono da giorni ampio spazio sui media. Le considerazioni che da queste prendono avvio si allargano alla Chiesa, al suo governo, alla sua fisionomia nel momento storico presente, aprono domande antiche e nuove su cui i più diversi punti di vista si confrontano. Il dibattito pubblico su tutto ciò, in epoca globale, deve tenere conto di fattori che lo rendono particolarmente complesso e ambiguo. Le legittime esigenze di informazione e di verità sulle questioni dichiarate si mescolano, come sempre, ad interessi di ben altra natura: interni e esterni, politici e finanziari, aperti o occulti, di torbido ascolto o di spettacolo mediatico. Se, d’altronde, il calcio in Italia è addirittura manipolato da Singapore, è facile che l’opinione corrente ipotizzi ben altri intrecci su questioni attinenti al Vaticano e alla Chiesa cattolica. Si deve poi ricordare che ogni riflessione sull’argomento, fatta in Italia, può diventare parziale o addirittura fuorviante quando intende essere così generale da voler sviluppare previsioni sul papato, la Chiesa nel nuovo millennio, la fede cristiana, le religioni e il mondo.

Detto questo, non ci si deve sottrarre in nulla alle esigenze di informazione e di verità. E, segnatamente, alle esigenze così come sono avvertite oggi. Certi montaggi televisivi li conosciamo tutti: il potere non può sottrarsi alle domande, pena apparire reticente, complice, omertoso. La «realtà percepita» è quella con cui tutti, «realisticamente», dobbiamo fare i conti. Chi non lo fa appare – anche se non lo è – come uno che ha la coscienza sporca, che può permettersi di non dare risposte, che pensa di vivere nell’impunità. Supponenza, protervia, prepotenza sono gli aggettivi attribuiti ai titolari di tali comportamenti. Parlamentari che volgono lo sguardo altrove dalle telecamere o prelati che si rinchiudono nel silenzio non sono mai una bella immagine.

Guardare in faccia i fatti, parlarne, e tentarne possibili letture, traendone utili indicazioni è, al contrario, cosa da compiere. Anche perché i fatti sono già assai gravi e stanno producendo disorientamento e scandalo dentro e fuori della Chiesa.

Lasciando a chi di dovere le indagini e la comprensione degli ultimi  fatti, è opportuno invece sviluppare alcune riflessioni sui segnali di disagio che da tempo emergono riguardo al governo della Chiesa cattolica.

In primo luogo si deve esprimere ogni possibile vicinanza alla prima vittima dell’ultimo «fatto» Vaticano che conosciamo: il Santo Padre Benedetto XVI. Lesa la persona, nell’affetto e nella fiducia, lesa la sua prima comunità – «la famiglia» – lesa l’istituzione che incarna: c’è stato un reato che evoca il tradimento e che tale resta, anche se l’autore fosse stato spinto da una sorta di autoimmolazione per denunciare ipocrisie dell’ambiente, scorrettezze o altri eventuali reati tutti da dimostrare.

La prima vittima va ricordata sempre e in questo caso di più. Il Papa che ha dimostrato di mettersi come nessun altro dalla parte delle vittime degli abusi sessuali, oggi merita ogni affetto e sostegno. Nella vicinanza al Papa – ricordiamolo subito – si esprime, per l’appunto, la solidarietà a chi ha voluto e realizzato un’opera netta e intransigente contro uno degli scandali peggiori che hanno generato tanta parte del disagio diffuso di cui stiamo parlando: la pedofilia. Opera rara di pulizia, certamente in corso. Questo genere di scandalo è, infatti, odioso proprio per la sua natura criminale. Benedetto XVI non ha posto indugi e ha iniziato una radicale azione di pulizia, parlando, scrivendo, convocando, denunciando, risarcendo, rimuovendo, riformando, verificando. Tutti verbi del governo, a dimostrazione che l’età avanzata non pregiudica tempestività e incisività. Anche perché, tra tutte le istituzioni mondiali, il papato, per agire, non ha certamente bisogno di consenso come le altre.

Il modo con cui Benedetto XVI ha messo mano a questa grande opera di bonifica nell’ambito della pedofilia indica un metodo da utilizzare anche in altri ambiti, ovunque emergano opacità o comunque i comportamenti generino il sospetto che la Chiesa abbia qualcosa di male da nascondere. Perché il modello di potere che la Chiesa deve incarnare è quello del servizio. Dunque non può mai usare il potere per nascondersi, specialmente davanti a chi è piccolo e povero, magari vilipeso o confuso. Ecco allora che chi agisce in modo criminoso deve essere smascherato, pubblicamente denunciato e conseguentemente perseguito. Questa affermazione, che attiene al tema universale della legalità e non a quello ecclesiale della carità, è una rivoluzione moderna – sì, moderna! – di questo Papa, molto più moderno di quanto una certa immagine non lo voglia accreditare. Una manciata di mesi fa molti si attenevano, magari in buona fede, al principio: «bisogna evitare lo scandalo» o, pensando al criminale e vedendone magari solo il lato psichiatrico lo etichettavamo con un «poveretto» e, dunque agivano in suo favore per «proteggerlo» insieme alle vittime, ancora una volta, dallo scandalo. Con Benedetto XVI questo atteggiamento è in fase terminale o, per lo meno è stata tolta una giustificazione razionale, su pretesa base teologica.

Modernità vuol dire fare i conti con le leggi degli stati democratici entro cui la Chiesa vive. Si è compreso che da tale punto di vista l’etica, sessuale o civile che sia, poco importa: la trasparenza richiesta nelle azioni finanziarie per evitare i sospetti di riciclaggio di denaro non è dissimile dalla trasparenza necessaria nei comportamenti sessuali malati per evitare i sospetti di riciclaggio del clero. Il Papa ha inaugurato una prassi che non permette gli «amoveatur» silenziosi e ferragostani e li sostituisce con la semplice denuncia aperta. Luminoso atteggiamento e audace comportamento che sgombra il campo da un ciarpame di accuse e di illazioni che ciclicamente si addensano sul Vaticano prima e sulla Chiesa poi. Se poi si scoprissero trame, complotti, congiure e si configurassero reati, ugualmente si dovranno denunciare. Questa prassi, se continuerà ad affermarsi, è la premessa ad ogni altra riforma. Questa prassi – denunce alla magistratura, collaborazione ad ogni livello con gli stati, azioni comuni di intelligence – è la strada maestra della fiducia che sgonfierà ogni attacco pretestuoso e rafforzerà la solidarietà della Chiesa con il genere umano.

«È la gioia – ricorda il Papa – il fascino della vita cristiana», non riti e prassi antiche che non reggono più con la sensibilità contemporanea e che sembrano emanare solo quel profumo esotico di ciò che è in via di estinzione. In fondo serve a tanti, anche ingenui o insospettabili, coltivare l’immaginario collettivo di un Vaticano luogo di segreti e di misteri, magari di intrighi e documenti inaccessibili, ogni tanto sottratti per proseguire in pubblica piazza scontri che non si risolvono all’interno. Uno scrigno perforato, da cui fluiscono notizie a cavallo – in onore al più avanzati metodi di disinformazione – tra verità e fantascienza, capaci di spostare il voyeurismo collettivo sul sacro, cibo prelibato e remunerativo.

L’atteggiamento risoluto e – insisto – moderno di Papa Ratzinger è un vento impetuoso che toglie ogni ideologia poggiata sulla falsa coscienza, basata sui misteri. Il resto lo lasciamo al Codice da Vinci o a Il nome della rosa. Abbiamo bisogno di una fede sempre più luminosa, scevra da retaggi superstiziosi e impropri supporti emotivi.

Il metodo di papa Ratzinger è, in fondo, quello antico e cristiano dell’esame di coscienza, un  metodo sereno e forte, applicato in modo moderno. La realtà contemporanea richiede infatti distinzioni nuove nelle modalità di comunicazione che riformulino concetti come riservatezza, segreto, gestione del potere, un nuovo equilibrio tra protezione della persona, riforma di se stessi, della Chiesa e testimonianza di fronte al mondo. In pratica, un esame di coscienza su tre piani: la persona davanti a se stessa, la Chiesa davanti a se stessa e la Chiesa davanti al mondo.

Per tentare di condurre questo esame di coscienza, possiamo prendere spunto dall’allocuzione del Santo Padre per il Concistoro ordinario pubblico, il 18 febbraio 2012.

Rivolgendosi ai Cardinali, il Papa commenta il Vangelo attingendo ai santi ed esprimendo un magistero universale che oltrepassa i confini degli uffici e dei ruoli, sacri o profani, raggiungendo i fedeli e ogni persona di buona volontà.

Primo: la persona davanti a se stessaIl Papa commenta così la pagina della discussione dei discepoli su chi potesse essere il «primo»: «Giacomo e Giovanni con la loro richiesta mostrano di non comprendere la logica di vita che Gesù testimonia, quella logica che – secondo il Maestro – deve caratterizzare il discepolo, nel suo spirito e nelle sue azioni. E la logica errata non abita solo nei due figli di Zebedeo perché, secondo l’evangelista, contagia anche “gli altri dieci” apostoli che “cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni” (v. 41). Si indignano, perché non è facile entrare nella logica del Vangelo e lasciare quella del potere e della gloria». C’è tutto e ci siamo tutti. Tutti muoviamo da una logica di ricerca di sè, magari pensando di cercare il bene degli altri, della Chiesa, di Dio. Ed è qui che l’uomo religioso ha un problema in più, rispetto agli altri uomini: il problema dei farisei. L’autoinganno, alimentato da molti meccanismi di difesa, può strutturarsi in modo più forte, ideologico, fraintendendo cosa sia la gloria della Chiesa e non vedendo il kairos, l’appello al cambiamento che, invece, è sempre kenotico poiché non c’è vera conversione se non è fondata sull’umiltà. Il Vangelo non loda mai la paura e mette in guardia da difese che si ammantano di legittimità e dovere, ma che tradiscono l’inconsapevole volontà di non abbandonare privilegi. La paura di Dio e delle proprie ferite struttura la difesa che le nasconde invece di mostrarle. Tutto questo attiene alla persona, sta nel segreto e può avvenire solo in un clima di misericordia. La Chiesa ha questo compito primario: mostrare il volto misericordioso di Dio, che libera dalla paura e apre al cambiamento. È la conversione permanentemente, la riforma di se stessi. È la prima e la più difficile. Qui non consola «chi è senza peccato….». Secondo: la Chiesa davanti a se stessaRipetendo e ripetendosi «Vade retro, satana!», come dice Gesù a colui che si stava accingendo, ancora inconsapevole, a divenire il primo Papa, la Chiesa cresce nella consapevolezza di essere «semper reformanda» ascoltando la Parola del suo Signore. Prosegue Benedetto XVI, nell’Allocuzione ai Cardinali: «San Giovanni Crisostomo afferma che tutti gli apostoli erano ancora imperfetti, sia i due che vogliono innalzarsi sopra i dieci, sia gli altri che hanno invidia di loro» (cfr Commento a Matteo, 65, 4: PG 58, 622). E commentando i passi paralleli nel Vangelo secondo Luca san Cirillo di Alessandria aggiunge: “I discepoli erano caduti nella debolezza umana e stavano discutendo l’un l’altro su chi fosse il capo e superiore agli altri … Questo è accaduto e ci è stato raccontato per il nostro vantaggio… Quanto è accaduto ai santi Apostoli può rivelarsi per noi un incentivo all’umiltà” (Commento a Luca, 12, 5, 24: PG 72, 912). Questo episodio dà modo a Gesù di rivolgersi a tutti i discepoli e “chiamarli a sé”, quasi per stringerli a sé, a formare come un corpo unico e indivisibile con Lui e indicare qual è la strada per giungere alla vera gloria, quella di Dio: “(…) chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti” (Mc 10,42-44)». Non era nata la Chiesa e già c’era chi voleva fare carriera. Con fine buono, si direbbe: per stare più vicino a Gesù!

L’antropologia cristiana – e non solo – ci ricorda che non è l’occasione che fa l’uomo ladro. È vero il contrario: l’uomo è ladro e nell’occasione si manifesta. Dunque, assolto il primo punto, attinente la vita personale, resta da vedere come le strutture, l’organizzazione della comunità dei discepoli di Cristo, possa essere rispondente al suo mandato, nel tempo e nelle culture che cambiano, riducendo i rischi di appannamento o, addirittura, di degrado della sua vita morale diventando così meno credibile nell’annuncio.

Si tratta di passare dalla riforma del cuore alla riforma della prassi. In certi momenti storici l’esigenza di riforma è più forte e spesso chi vi ha posto mano è divenuto santo. Sono aperti molti capitoli. La struttura ecclesiastica forse può rivedere gli equilibri tra potere centrale della Curia romana e potere affidato ai vescovi, tra le nunziature e le conferenze episcopali, verificando, come in ogni organismo, se il sistema di pesi e contrappesi sia ben funzionante. Ugualmente può essere ripensata la distinzione tra l’azione di governo a livello dottrinale e quella a livello pastorale o politico nelle molteplici relazioni internazionali. Le forme cambiano, non l’identità profonda. Come in una persona l’incessante cambiamento permette un’identità viva. La Chiesa ha vissuto senza potere temporale fino alla Donazione di Sutri del 728, poi ha vissuto con lo Stato Pontificio fino 1870 e vive oggi con lo stato della Città del Vaticano. Come vivrà, sotto questo profilo, nel 2100 o nel 2200? Diaconi, vescovi, patriarchi, cardinali sono alcuni degli uffici nella Chiesa che, pur mantenendo intatto il nome, hanno cambiato profondamente significato, compiti, poteri. Il dialogo ecumenico è e sarà una spinta a far tesoro comune dei doni presenti nelle diverse confessioni.

Sapendo che la Chiesa non è assimilabile al concetto di democrazia moderna e occidentale, esiste comunque una tensione vitale nel governo tra «principio petrino» e «principio mariano», tra primato, collegialità, sinodalità. La grande riforma del Diritto Canonico, sulla spinta del Concilio Vaticano secondo, ha compiuto un passo irreversibile, affrancando la vita della Chiesa, che non è democratica, dal rischio dell’arbitrio che un principio di autorità fondato sulla fede, ma malamente interpretato o esercitato potrebbe dar luogo, negando, all’interno, secoli di pensiero e di prassi cattolica a difesa della dignità della persona.

Per i motivi che ricorda il Santo Padre, nessuna organizzazione è affrancata da alcuni rischi: «Dominio e servizio, egoismo e altruismo, possesso e dono, interesse e gratuità: queste logiche profondamente contrastanti si confrontano in ogni tempo e in ogni luogo», ammonisce i Cardinali Papa Benedetto. Per questo occorre vigilare che la lealtà non diventi mai servilismo promuovendo dinamismi strutturali che allontanino la cortigianeria.  Compiacere il capo – lo ricordavamo più sopra ricordando Pietro che consiglia Gesù – è mestiere antico. Spesso non c’è malizia. La storia, non solo ecclesiastica, ci ricorda che i consiglieri del principe possono diventare addirittura traditori o creare trame che si trasformano in strutture poliziesche capaci di stroncare carriere sante e promuoverne altre disgustose. E il capo non è mai garantito nella propria capacità di ascolto e di filtro. Ad ogni livello di potere.

Tutto questo attiene alla comunità ecclesiale e, come ogni «correctio fraterna», deve avvenire in momenti e luoghi diversificati in cui l’equilibrio tra carità e verità non venga stravolto. Questo lavoro non può pensarsi nell’agorà. Non per quelle diverse forme di paura poc’anzi stigmatizzate, ma per la sincerità che è richiesta e che deve essere assicurata da usi strumentali e lesivi di persone o dell’intera comunità. Tutti coloro che amano la Chiesa vogliono contribuire in vario modo alla formazione di quella «classe dirigente» speciale che tiene vivi i misteri della salvezza, cominciando dai giovani avviati in seminario, proseguendo negli organi di consulta, giungendo a testimoniare sulle candidature dei vescovi. Una gerarchia di liberi e forti, pronti a dare la vita per il Regno di Dio. Chierici e laici, uomini e donne, che nella parrocchia più piccola del mondo o nei luoghi più delicati di collaborazione al ministero di Pietro siano liberi e trasparenti nell’esercizio della propria parte di potere davanti a Dio e agli uomini. Liberi all’interno di esprimere pareri e opinioni, come in una famiglia, forti all’esterno, nella gloria del Signore.

Terzo: la Chiesa davanti al mondoIl mondo che chiede verità alla Chiesa è per definizione ambiguo. Volevano sapere dove era nato Gesù sia i pastori che Erode. E davanti a questo mondo Gesù si è lasciato incontrare inerme nella grotta di Betlemme, così come è stato portato in salvo in Egitto. In Toscana, l’adagio popolare taglia corto: «per i bischeri non c’è paradiso» – recita – e rompe ogni possibile connubio tra bontà e dabbenaggine. Precisato questo, la Chiesa dialoga col mondo con un atteggiamento profondo di intima solidarietà, così come Cristo stesso la abilita ogni giorno. Il Signore ricorda ai discepoli che la verità sarà gridata dai tetti e che ogni servizio alla verità si accompagna alla luce, alla trasparenza. Lui che si è fatto debole forgia la sua Chiesa a presentarsi al mondo nello stesso modo. Il discepolo accoglie questo invito e, disarcionato dalle proprie sicurezze mondane, si fa povero con i poveri, debole con i deboli. Dal lupo di Gubbio ai diavoli cacciati da Arezzo, dall’indignato padre Bernardone al lontano e minaccioso Sultano arabo, il nostro santo Francesco manifesta il vero volto di Cristo e benedice chi lo offende, non attardandosi sulle ragioni e sui torti, ma domandandosi in cosa quell’incontro, addirittura l’offesa, possa indurlo a conversione. Perché l’appello ad essere «semper reformanda» viene da dove meno ce lo attendiamo. Come Ciro, la cananea, la donna fenicia, il centurione… come un ladro, addirittura!

È una lettura che i discepoli di Cristo possono fare, insieme, guidati dal pastore, per essere uniti nell’amore davanti al mondo e col mondo. E questa è opera pubblica e da pubblicizzare.

Corvi, falchi, colombe, insieme alla fenice sono elenchi di immagini che possono proseguire, in ambito ornitologico, giungendo fino agli avvoltoi o alle aquile. C’è però un altro uccello, un po’ meno noto al grande pubblico, che esprime una metafora non meno interessante: il pellicano. Giovanni della Robbia lo modella in terra cotta alla sommità della croce nella grande pala della Cappella delle Stimmate del Santuario de La Verna. In tempo di fame il pellicano becca il proprio corpo fino a lacerarlo per farne scaturire sangue con cui nutrire i propri piccoli. Il cristiano sa di essere sempre in tempo di fame, per questo la Chiesa non ha paura della ferita che nutre. Sa addirittura che deve attingere al frutto di quella ferita, l’Eucaristia, donata dopo che la Parola si è fatta muta, frutto di quella ferita, fonte di salvezza o causa di perdizione se non è accolta con la pulizia interiore cui incessantemente deve dedicarsi.

Dentro quella ferita ogni ferita per amore porta salvezza perché non c’è amore senza ferita. Da lì viene il tesoro della Chiesa che è la santità, la presenza di Dio tra gli uomini, l’amore che abita ogni paura e la dissolve.

Anche in questo tempo, in questo passaggio, Dio, il Santo, non cessa di rivelarsi come la misericordia che salva.