Cultura & Società

Compie cent’anni Gian Burrasca

Compie cento anni il giornalino di Gian Burrasca; o meglio, sono già passati cento anni da quel febbraio 1907 allorché venne pubblicata sul Giornalino della Domenica la prima puntata delle avventure di un terribile ragazzino che non è solo uno spirito ribelle, ma uno dei più simpatici dissacratori del perbenismo dei grandi che sia mai apparso in letteratura. L’autore è Luigi Bertelli, detto Vamba, un giornalista importante, nato a Firenze nel 1858 e morto nel 1920, che prese il suo pseudonimo da un personaggio del romanzo Ivanhoe di Walter Scott. Scrisse soprattutto per l’infanzia e fu anche un buon disegnatore, tanto che corredò lui stesso con illustrazioni sue la storia del monello fiorentino. Il quale tanto terribile non è: si tratta di un contestatore ante litteram, che Vamba utilizza per mettere a nudo le ipocrisie della società. Gli insegnano che la verità va detta? Ebbene, Giannino Stoppani la dice e diventa Gian Burrasca. Perché mette a nudo la insincerità del mondo degli adulti, egli appare come un turbine, capace di stravolgere una realtà che ha bisogno spesso di essere messa alla berlina. Il successo fu travolgente e lo è stato per lungo tempo. Generazioni di piccoli lo hanno letto, tanti adulti lo hanno riletto. La televisione nel 1965 ne propose una edizione con la regia di Lina Wertmuller, e mostri sacri del teatro nelle parti principali. Una strepitosa Bice Valori fu la signora Geltrude, Sergio Tofano impersonò il signor Stanislao, Valeria Valeri fu la mamma, Ivo Garrani il babbo, Arnoldo Foà il Maralli, Elsa Merlini la zia Bettina. Le musiche di Nino Rota, con la famosa «Viva la pappa col pomodoro». Abbiamo parlato delle donne del Giornalino. Sarebbe ingiusto non ricordare Rita Pavone, che interpretò Gian Burrasca. Cantante famosissima allora, se la cavò egregiamente. Conoscendo la Wertmuller, è facile credere che la scelta di una donna in abiti maschili sia stata una trovata della regista per sintonizzarsi col divertente e graffiante spirito fiorentino di Vamba.

E.G.

Se sia veramente esistito il ragazzaccio

di Carlo Lapucci

Ricordo bene… Ero poco più d’un ragazzo… nel lontano anno 1946… mi trovavo ancora sfollato, con la famiglia a Montescurzolengo… ospitale paese, e là miseramente si viveva e disperatamente si mangiava, dato che, per le note vicende belliche, avevamo perso tutto: casa, lavoro, averi, speranze.La ridente cittadina aveva in quegli anni poco da ridere e noi ne avevamo ancora di meno, confinati in un enorme convento, da molti anni abbandonato, freddo, scuro, umido, dove, quando le porte erano chiuse, ci passavano comodamente i gatti.Si moriva di freddo. Chi vagava per la campagna cercando castagne o funghi, chi raspava nei campi cercando qualche patata sfuggita ai contadini, chi cercava erbe mangerecce nei prati. Si facevano lavoretti, si fumavano vitalbe, si tostava l’orzo e si faceva il sapone con le ossa. Le donne cucinavano e agucchiavano; le vecchie stazionavano in un enorme stanzone, che un tempo era la sala del capitolo dei monaci dove, con i caldani in mano e i bracieri ai piedi, si dedicavano con passione alla maldicenza.

Mentre eravamo in queste tribolazioni, un pomeriggio, quando come al solito le vecchie si erano ritirate nel gineceo, ecco che d’un tratto un braciere, ai bordi del quale mezza dozzina di vegliarde tenevano appoggiati i piedi, esplose producendo un uragano di faville, braci infuocate alzando un nuvolone di cenere e fumo. Con urli, belati, lamenti, invocazioni le vecchie s’aggiravano nel polverone, quando cominciarono a esplodere anche gli scaldini che tenevano in mano producendo un vero pandemonio di fantasmi neri che correvano urlanti nella densa caligine grigia e nel fumo, gettando veggi e scaldini dalle finestre.

Presto fu chiaro che gli scoppi erano stati provocati da numerosi marroni d’india, proditoriamente infilati nella cenere degli scaldini da qualche non visto squinternato, che aveva in quella situazione la voglia, il tempo e il coraggio di fare simili scherzi. Cominciò una vera psicosi: per il terrore di trovarsi tra le mani una bomba le vecchie mangiavano e andavano a letto.

Una mattina si vide sulla piazza Garibaldi, una montagna di sterco di cavallo, proprio sotto il posteriore della cavalcatura dell’eroe, come se quella bestia di bronzo, avesse voluto sgravarsi il ventre in quel modo straordinario per gli anni che non l’aveva fatto. Se ne discusse in municipio. Non bastò. Sul crepuscolo qualcuno entrò nella torre campanaria e alterò vistosamente congegni e pesi dell’orologio, alterando la velocità dello scappamento. L’orologio si mise a correre battendo l’avemmaria e poi l’or di notte a tempo di record, mandando tutti a letto verso le otto e mezzo. Poi le ore si rincorsero: la gente scese in strada alle tre, i contadini si trovarono a buio nell’aia mentre i galli dormivano. Partirono le corriere con pochi sperduti viaggiatori. Altri aprirono i negozi al buio e rimasero a scrutarsi nelle ombre con quattro gatti d’avventori.

C’era evidentemente uno scherzomane e i sospetti si appuntarono su noi sfollati. Fummo sospettati dai paesani anche di mangiare i gatti, perché le bestiole sparivano. Riapparvero tutte all’improvviso in teatro durante la rappresentazione della Cena delle beffe. Sgusciarono silenziosi in platea strusciandosi alle gambe degli spettatori e facendo fare balzi incredibili e urli tarzaniani alle signore, rapite dallo svolgersi del dramma. Riconoscendo il proprio gatto qualcuno cominciò a inseguirlo per la platea, poi altri lo imitarono, finché un soriano saltò sul palcoscenico e tutto finì in una baraonda.

La misura fu colma quando apparvero alcuni manifesti in cui si annunciava che, disponendo il Vaticano di un rifornimento straordinario di zucchero proveniente da Cuba, la mattina del 13 dicembre, alle ore 5, sarebbero arrivati sulla piazza Garibaldi quattro camion della Ditta Seterzi per distribuire gratuitamente 65 kg di zucchero per famiglia… «Munirsi della tessera annonaria, di un certificato di residenza e disporsi in una fila ordinata». Il parroco ripeteva di non saperne nulla, molti sostenevano che era uno scherzo, ma tutti sospettavano che fossero espedienti per rimanere in pochi e prenderne di più.Nessuno volle rischiare. All’una di notte, sotto una pioggerella ghiaccia, ma senza interruzione, la piazza cominciò a pullulare di gente che andava a formare una coda d’intabarrati, flagellati da un vento gelido. Alle tre la fila aveva già passato il cancello del cimitero, rinforzata da gente dei paesi vicini, inutilmente ricacciati. Chi aveva grossi zaini, chi sacchi, balle con carriole, carretti, carrozzine, sedie a rotelle, biciclette col rimorchio. Tra i primi il sindaco e il prete che spergiurava d’aver telefonato in Vaticano e non aver avuto nessuna assicurazione, la levatrice, il dottore, assessori e consiglieri, gli accattoni con le ciotole. Non mancava nessuno.

Alle 6 la fila era a metà del ponte e s’allungava ancora, ma dei camion neanche l’ombra. Alle otto il prete, che aveva ritardato la messa, sparì con le monache e i frati, mentre gli altri rimasero fino alle undici, quando la fila si ruppe, la folla dilagò nella piazza, entrò inferocita in chiesa e di là in canonica. Per fortuna il prete era sparito con la perpetua, altrimenti sarebbe finito male. La faccenda andò nelle mani dei carabinieri.

Qualche sera dopo ero nel bosco cercando tartufi, quando s’avvicinò uno sfollato con lo zaino rigonfio: uno sfaticato che andava sempre in cerca di qualcuno per giocare a carte e spesso mi rimorchiava. Divertendomi a sentir raccontare le sue panzane ci avevo fatto amicizia e spesso andavamo a mettere tagliole nel bosco o a pescare. Vestiva sportivo, con eleganza antiquata, con abiti un po’ frusti, di solito calzoni alla zuava, casacca e berrettone come i ciclisti d’una volta. La domenica metteva una sahariana del tempo vittoriano, una canna da passeggio e una macchina fotografica a tracolla, che non usava mai. Diceva di chiamarsi Tirelli, ingegner Venanzio Tirelli, d’essere sposato con una certa Gertrude Rossi, dalla quale si era separato dopo 6 mesi appena. Aveva un orologio che a suo dire andava 47 minuti avanti e 23 indietro. Per sapere l’ora doveva sempre fare dei calcoli complessi, dopo i quali dava un responso improbabile. Viveva solo, in una cella del convento e girava con l’aria di uno che è in ferie a Cortina. Ci sedemmo dentro una capanna di boscaioli per fumare una sigaretta, mentre il suo canino giocava nel bosco.– La saluto, mi disse, me ne devo andare da Montescurzolengo…– Ma come? – dissi – ingegnere, se ne va? E dove va?– Via.– E perché? – dissi.– Ma come? Non ha capito? Lei dovrebbe aver capito. Le ho raccontato parecchie mie avventure, perfino d’aver fatto una questua per la vedova del milite ignoto. Chi posso essere io?– Che io sappia l’ingegner Venanzio Tirelli.– No. Lei lo sa e non mi tradirà: lei è un amico, l’unica persona alla quale non ho mai fatto uno scherzo.– Allora è lei l’autore di tutte queste scemenze, come la fila per lo zucchero… Lei è pazzo, ingegner Tirelli.– Giovanni Stoppani, vorrà dire.– Come?– Il cognato dell’avvocato Maralli.– Gian Burrasca! – Eccomi qua. Sono nato il 20 settembre 1897. Mi sono sposato nel ’30. Ho fatto il rappresentante di stufe e scaldini e ho cambiato identità per sopravvivere.– Sarebbe a dire?– È una lunga storia. Vendetti il mio Giornalino a Luigi Bertelli, un amico di mio padre, che ci fece un buon affare. Allora avevo bisogno di quattrini. Ho continuato tutta la vita a fare scherzi, anche a quella povera donna di Gertrude, mia moglie.– Gertrude: è proprio nel suo destino…– Un destino di fare scherzi, anche ai fascisti. Quanti ne ho fatti quando sfilavano vestiti da eroi pieni di nappe, gagliardetti, sciarpe, decorazioni. Una volta tolsi il disco della marcia e feci ragliare un asino dentro il microfono. Un boato… Scapparono tutti… Ancora se lo ricordano: se mi prendono m’ammazzano. Si mise a ridere.– Ma chi glielo fa fare?– Creda è più forte di me.– Odia il prossimo?– No. Ho bisogno di vederlo quando aspetta lo zucchero, uno cercando di fregare l’altro, con la paura d’essere fregato, e chi dice nero per dire bianco, e gli altri intendono bianco per fare nero e alla fine aspettano tutti lo zucchero fino alle undici e poi corrono a bastonare il prete… È questa per me la vita. Arrivederci. Devo partire. Vede, ho già fatto la valigia.– Ma perché se ne va?– Comincia a tirare cattiva aria per me: sento già l’odore del collegio Pierpaolo Pierpaoli. Arrivederci. Lei è stato un caro amico.Sparì nella vegetazione. Al paese non fu più visto. Un giorno mi arrivò una cartolina da Montescurzolengo col monumento a Garibaldi: Un caro saluto dal suo Venanzio Tirelli, alias G. B.Cercai nell’elenco telefonico: a Firenze non c’era un abbonato con quel nome, non c’era neppure Maralli. Di Collalto ce n’era uno, ma non sapeva nulla. Un’impresa disperata. Domandavo se avevano tra i parenti qualche mezzo matto o balordo.– Quasi tutti, rispose il primo.Il secondo domandò:– Perché, lei ce li ha tutti normali?L’ultimo mi domandò come me la passavo dopo che avevano chiuso i manicomi. Allora desistetti.Più d’una trentina d’anni fa, all’Accademia dei Tartassati parlava uno psicanalista sul tema: Il Diavolo e il satanismo: prospettive per il III millennio. Il pubblico gremiva la sala. L’oratore aveva fatto venire a tutti i bordoni nella schiena, mimando Satana come un grande attore, quando balenò nell’aria un grande diavolone rosso con tanto di corna, coda e forcone. Con un fortissimo fischio si materializzò nell’aria, divenne enorme e, con una fragorosa esplosione, si dileguò diffondendo un puzzo tremendo di zolfo.Ci fu una ressa spaventosa con feriti e contusi. Stando di lato vidi ricadere gomme stracciate di palloncini da fiera con la bombola d’un canotto gonfiabile e capii come era venuto fuori quell’effimero Belzebù di gomma. Mentre ognuno nel tafferuglio generale cercava scampo da quel diavolo del quale un minuto prima s’era fatto beffe, correndo dietro la folla gridai:– Stoppani!Un vecchio si voltò di scatto, mi guardò, riconobbi i noti tratti del viso ma, appena mi vide, s’infilò nella calca e scomparve.

LE DONNE DEL «GIORNALINO»

di Elena Giannarelli

Le donne nel Giornalino sono molte e decisamente interessanti. La prima ad entrare in scena è la mamma, signora Stoppani. Di lei non sappiamo nemmeno il nome: è la mamma e basta. Brava e buona, perdona sempre il suo discolo e cerca di sottrarlo alle ire paterne; è addirittura causa prima della scrittura. Il «giornalino», il diario, lo regala proprio lei a Giannino in occasione di un compleanno. In un primo tempo, impressionato da quelle pagine bianche, il ragazzino imita le sorelle, che ogni sera, con i capelli sciolti e in camicia da notte, passano ore ed ore a vergare i loro diari; addirittura copia una pagina da quello di Ada, la maggiore, ma fortunatamente capisce che la cosa non può funzionare. Ada è destinata a rimanere zitella perché i genitori non daranno mai il consenso alle sue nozze con l’impiegatuccio De Renzis, che mai compare in azione e resta un’ombra fuori campo.

Diverso è il destino di Luisa e di Virginia. La prima sposa il dottor Collalto e va a Roma; la seconda convola con l’avvocato Maralli, socialista, candidato alle elezioni, e la mamma Stoppani cerca di opporsi all’unione con un «senza Dio» che accetta la cerimonia religiosa in una sperduta chiesetta all’alba. Gli costerà la carriera politica, ad opera naturalmente di Giannino, accanito assertore della verità. I lettori vengono accompagnati da Gian Burrasca nel lungo viaggio verso questi eventi in maniera non indolore, perché egli attenterà a quelle nozze, dopo aver fatto fallire una festa da ballo data dalle sorelle proprio allo scopo di trovare marito. La prassi del tempo prevedeva che un giovane inviasse una «lettera di intenti» alla ragazza che intendeva corteggiare, corredandola di un suo ritratto con dedica. Le improvvide sorelle avevano vergato, sul retro delle foto ricevute, commenti non proprio cortesi sui giovanotti. Questi avevano ricevuto con l’invito proprio quelle immagini sottratte da Giannino. Naturalmente nessuno di loro si era presentato e la riunione era finita in malo modo per Gian Burrasca.

Non ci fanno una bella figura, le ragazze, nel «Giornalino». Il bambino ne coglie tutte le contraddizioni: gelose, invidiose delle amiche, pronte a parlarne male. Desiderose di sposarsi, fra ingenue malizie e slanci d’affetto verso il fratellino, sono forse le rappresentanti più fedeli di una certa borghesia fiorentina dei primi Novecento.

L’indimenticabile zia Bettina vive in campagna. Lunga lunga e secca secca, è il prototipo della zitella avvizzita, che non mancava mai in nessuna famiglia. Fa il regalo di nozze sbagliato a Luisa: non le attese buccole di brillanti, ma una copertaccia di lana fatta con le sue mani. È la protagonista a sorpresa di una storia d’amore che solo Giannino poteva svelare. In fuga dalla casa paterna, egli si rifugia dalla zia e scopre che essa ogni giorno parla con una pianta di dittamo che sta su una finestra. Per farle cosa gradita, cerca di provocare una crescita artificiale, infilando un bastoncino nel vaso. La zia grida al prodigio e invoca l’anima del signor Ferdinando, antico fidanzato e autore di quel dono. Il vaso cade ed appare Giannino: è grazie a quelli come lui che le zie Bettine svelano spesso un Ferdinando nascosto. Gian Burrasca fa scoppiare le contraddizioni del mondo dei grandi. La marchesa Sterzi, che parla col naso, frequenta lo studio di Collalto nella vana speranza di guarire. Il medico le spilla quattrini. Giannino le fa il verso; il cognato si inquieta. Per ristabilire la verità, parla di nuovo alla nobildonna, normalmente, e questa crede che il Collalto l’abbia guarito e gli rinnova la fiducia. La parola magica, detta da Giannino in entrambe le occasioni, è «Marameo», splendida chiave di commento alla realtà nel suo rovesciamento. Su tutte spicca la signora Geltrude, nipote del compianto Pierpaolo Pierpaoli, fondatore del collegio in cui Giannino dovrebbe ravvedersi e nel quale fa scoppiare la rivoluzione della «pappa col pomodoro». Costei è la direttrice, insieme al marito, il signor Stanislao, al quale dà costantemente dell’imbecille. Piccola, grassa, brutta, è la visualizzazione del potere ottuso, con le sue cattiverie e meschinità. Sarà punita, in una memorabile seduta spiritica ad opera di Giannino ed altri falsi fantasmi. C’è la Merope Castelli, con la figlia Maria, che pare una bambina qualunque, ma quando apre bocca parla in bolognese: è la diversità buffa per Giannino. Insomma le donne sono protagoniste di una sarabanda che ha l’epicentro in Gian Burrasca, la cartina di tornasole che fa esplodere le contraddizioni e mette a nudo le ipocrisie di una realtà inamidata da scardinare.