Toscana

Consumi in calo nell’Italia a due velocità

di Claudio Turrini

Nel corso del 2009 la spesa media delle famiglie italiane è calata in termini reali del 2,9%. Lo certifica una fonte «ufficiale» come l’Istat, che lo scorso 5 luglio ha presentato la sua indagine annuale sui consumi delle famiglie.

E anche dal primo trimestre 2010 non arrivano segnali positivi. Sempre l’Istat ci dice che da gennaio a marzo il potere d’acquisto delle famiglie è diminuito ancora dello 0,5% in termini reali rispetto al trimestre precedente e del 2,6% su quello del 2009, riducendo di conseguenza anche la propensione al risparmio. Le famiglie italiane continuano dunque a «tirare la cinghia», come sindacati e associazioni di consumatori sostengono da tempo. Federconsumatori parla addirittura di un -3,5% per i consumi nel 2009, pari a 20 miliardi di euro. Da questi dati – ha dichiarato il segretario confederale della Cisl, il toscano Maurizio Petriccioli – «emerge un forte disagio delle famiglie che non può non ripercuotersi anche sulla crescita del nostro paese. Oramai la riduzione del potere di acquisto non si traduce più solo in una riduzione dei consumi in quantità e qualità ma intacca anche il risparmio, la cui ampiezza ci aveva permesso di fronteggiare meglio di altri paesi la crisi economica».

Invita a leggere i dati Istat senza «interpretazioni sommarie» il ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, Renato Brunetta. Parlando a nome del governo, ha ribadito che i dati diffusi sono «in realtà pienamente coerenti con il quadro di tenuta delle condizioni di vita degli italiani, e in particolar modo dei lavoratori dipendenti». È vero, infatti, «che il reddito delle famiglie è certamente diminuito» ma per il ministro solo «del 2,6% a fronte di una caduta del Pil reale del 5,1%». Per cui, prosegue Brunetta, «le famiglie il cui reddito principale deriva da lavoro dipendente o da pensioni hanno salvaguardato il loro potere d’acquisto». «La tenuta delle condizioni degli italiani il cui reddito prevalente deriva da salari, stipendi o pensioni (nel complesso, più di 30 milioni) – sempre per il ministro – è stata assicurata, nel 2009, anche dall’andamento di queste ultime» che per i 17 milioni di pensionati, sarebbero aumentate «del 3,1%, ovvero più di 2 punti sopra l’inflazione». Per Brunetta «la caduta del reddito ha invece colpito in misura prevalente i profitti delle imprese e il lavoro autonomo» il cui reddito «ha segnato, a prezzi costanti, una caduta del 5,5%».

«C’è da capire da dove il ministro Brunetta tira fuori questi dati», commenta la ricercatrice fiorentina Annalisa Tonarelli. Per la sua esperienza scientifica, anche come coordinatrice dell’Osservatorio delle povertà e delle risorse del Dipartimento di scienza della politica e sociologia dell’Università di Firenze, il dato diffuso dall’Istat è «realistico» e in linea con quello che dicono tutti i soggetti, compresa la grande distribuzione, che ormai da tempo registra un calo di vendite nella quarta settimana del mese, segno che il budget a disposizione di tanti consumatori in quei giorni è già esaurito. «Il dato incontrovertibile – prosegue – è che c’è stato un decremento dei redditi e anche del potere d’acquisto, quando – come sappiamo – i salari in Italia sono tra i più bassi d’Europa». D’altra parte – ci spiega – «da un punto di vista metodologico il rapporto Istat sui consumi ha un valore importante perché è su una rilevazione panel: le stesse persone sono ricontattate tutti gli anni. È un campione che dovrebbe essere rappresentativo, ma anche se non lo fosse del tutto, lo è nella dinamica: vuol dire che quelle stesse persone hanno cambiato la loro situazione nel corso degli ultimi anni».

L’Istat ci dice che la spesa per alimenti è calata del 3% nel 2009. Si spende sempre meno per carne o pane. Cambiano anche le abitudini?

«Voglio pensare che la crisi abbia anche indotto dei meccanismi virtuosi. Magari se finora compravi un chilo di pane anche se poi te ne avanzava mezzo, adesso ci stai più attento».

Insomma nei consumi si annidano anche tanti sprechi…

«Molte persone continuano a spendere senza rendersi conto dell’impatto che questo può avere sulla loro situazione economica complessiva. Preferiscono essere delle cicale, piuttosto che delle formiche».

Forse l’immagine della formica non è più di moda…

«Chi spende con parsimonia passa per un povero disgraziato, un avaro, un attaccato al denaro. Dire ai figli: “Guarda questo non si può comprare perché costa troppo”, cosa che mi ricordo a noi veniva detta tranquillamente, oggi ti fa sentire a disagio, come già “povero”. Così si finisce per consumare più di quanto si potrebbe e sarebbe necessario, incentivati anche da strumenti come le carte di credito revolving (acquisto rateizzato, ndr). C’è chi può farlo senza grosse conseguenze. C’è invece chi lo fa, emulando comportamenti indotti da modelli pubblicitari o dagli ambienti sociali che frequenta e poi rischia di trovarsi in una situazione difficilmente sostenibile. Il fenomeno dell’indebitamento delle famiglie, da noi in crescita ma ancora poco presente, è già drammatico in paesi vicini, come la Francia».

Tra i tagli che la famiglia è costretta a fare ce n’è uno più pericoloso di altri?

«È significativo che un capitolo come la salute sia fortemente ridimensionato. Piuttosto che ridurre altre spese, le famiglie in difficoltà preferiscono non curarsi».

Anche perché i costi di farmaci e cure mediche non sono certo diminuiti…

«Assolutamente no. Vuol dire che di fronte al dente cariato, o alla protesi che ti devi fare, la rimandi a quando andrà meglio. Questo è un segnale preoccupante nel lungo periodo. Se non investi nella cura della salute vuol dire che hai più probabilità di essere in età avanzata un soggetto non sano. E andrai ad incidere maggiormente sulla previdenza pubblica».

Dai dati sembra che siano i giovani a risparmiare di più sulla salute…

«La spesa sanitaria dell’ultra65enne deve essere considerata al netto dell’esenzione dai ticket: è quindi una spesa ingente. I giovani adulti spendono meno in sanità anche perché quasi sempre se la pagano tutta di tasca loro. Quanto avvenuto in Inghilterra nel periodo della Thatcher è illuminante: le politiche di contenimento avevano inciso fortemente sulla spesa sanitaria e le statistiche ci dicono che c’è stato un aumento di malattie trascurate, di patalogie che se prese in tempo hanno un esito per lo più favorevole e che se invece tralasciate hanno un esito infausto».

Ci sono anche comparti dove la spesa non si contrae o addirittura cresce. La Toscana è una delle regioni dove si spende di più per la casa, che rappresenta il 32% della spesa totale.

«È una spesa che non si riesce a ridurre (mutuo, condominio, manutenzione immobile), come quella per i combustibili e l’energia, anche perché da noi la proprietà è molto diffusa. Sull’alimentare puoi andare ad incidere molto di più senza peraltro che questo incida sul tuo senso di impoverimento».

Gli anziani, specie se soli, arrivano a spendere quasi il 50% per abitazione ed energia.

«Il dato complessivo non tiene conto delle diversità dei comportamenti legati alle specificità degli individui. Per un anziano è meno problematico risparmiare sull’alimentare ma al confort dell’abitazione non rinuncia, perché ci vive 24 ore su 24. Così come sarebbe interessante comparare città e campagna, anche lì vedremmo grosse differenze. L’impoverimento non solo tocca selettivamente le persone in base al reddito, ma anche alle esigenze del consumo. Cosa devi fare per ridurre le tue spese senza per questo sentirsi povero? Le scelte degli individui e delle famiglie seguono più o meno questa logica».

Una famiglia con 3 figli spende mediamente 3.238 euro, contro i 2.648 di una coppia giovane senza figli. Sono oltre 7 mila euro di differenza all’anno. Ma forse la differenza di tenore di vita è ancora maggiore…

«Il maggior peso della crisi lo sentono le famiglie numerose. Il costo di quei tre figli è sicuramente superiore ai 7 mila euro di differenza, perché sono proprio i genitori a dover fare sacrifici, riducendo la spesa per sé. Molto però dipende anche dall’età dei figli. Un conto è averne tre piccoli e un conto averne tre grandi, che magari convivono ancora in famiglia e non riescono ad inserirsi nel mercato del lavoro. I dati andrebbero esplosi ancora di più per capire il loro vero significato. Comunque, una coppia senza figli probabilmente si sente legittimata ad avere consumi più alti».

Oltre mille euro separano la spesa media delle famiglie di operai (2.406 euro) da quella di imprenditori e liberi professionisti (3.492).

«È un dato che evidenzia come esista ancora una differenza significativa tra le classi sociali. Però dobbiamo prendere questi dati come medi: dentro ci sta quella nuova classe di liberi professionisti, di autonomi, che magari lavorano nell’ambito dei servizi e che hanno dovuto tirare la cinghia pure loro e fare i conti con una grande precarietà, mentre l’imprenditore che ha ormai una posizione consolidata e ha dei beni propri, riesce a non ridurre più di tanto il suo livello di vita. Però le categorie sociali utilizzate dall’Istat sono forse insufficienti».

In che senso?

«Basti pensare all’occupazione. Una cosa è avere un lavoro a tempo indeterminato e un altro avere un lavoro precario».

Aumentano forme nuove di povertà, anche in classi sociali finora al riparo, come testimoniano i centri di ascolto della Caritas e poi si vedono code di auto di vacanzieri o ristoranti e locali di divertimento gremiti di persone. Esistono due Paesi, uno che non ha bisogno di tirare la cinghia e uno invece che vi è costretto?

«C’è un’Italia a due velocità. C’è un nucleo di soggetti che crisi o non crisi riescono a mantenere intatto il loro potere d’acquisto per proventi, che siano da reddito o da capitale poco importa. Dall’altra c’è una componente crescente – anche tra quello che una volta era il ceto medio – che ha difficoltà ad arrivare a fine mese ed è costretta a ridurre le spese. Anche la casa da un lato è una risorsa, ma dall’altro è un onere. È un bene rifugio rispetto al rischio di impoverimento, ma nello stesso tempo è qualcosa che soffoca nella quotidianeità».

Eppure rimane al centro delle scelte economiche delle famiglie.

«Di fronte alla crisi economica la strategia di molte famiglie è quella di mantenere comunque al centro la casa, a costo di ridurre altre uscite. Un po’ perché sono spese poco contraibili, un po’ perché viene vista come tutela. Ovviamente chi ha una casa di proprietà e non ha il mutuo è già un soggetto che ha più ossigeno da respirare».

Si ha l’impressione che tante persone, specie le più povere, spendano sempre di più per giochi d’azzardo e lotterie.

«È un fenomeno in forte aumento, come abbiamo registrato anche nei Centri di ascolto della Caritas. La dipendenza da gioco è una vera e propria patalogia individuale che però ha una natura sociale e in cui lo Stato ha un ruolo di primo piano. Se tu fai pubblicità a lotterie e giochi d’azzardo, incentivi una spesa che ha benefici per le casse dello Stato ma che rischia di generare meccanismi di dipendenza soprattutto nelle fasce più a rischio. Anche perché ti vien voglia di giocare nel momento in cui hai problemi di carattere economico e pensi di risolverli con la fortuna, oppure quando non hai gli strumenti culturali per affrontare la crisi. Ti senti un relitto della società, hai un sacco di tempo libero, ed è più facile che ti avvicini ad un bar dove ci sono le slot machine con la speranza di risolvere i tuoi problemi».

LA RICERCALa spesa media mensile per famiglia nel 2009 – secondo i dati resi noti lo scorso 5 luglio dall’Istat (I consumi delle famiglie. Anno 2009) – è pari a 2.442 euro, con un calo dell’1,7%. Considerando poi che tale variazione incorpora anche la dinamica inflazionistica (in media dello 0,8%) la riduzione della spesa media mensile per consumi in termini reali appare alquanto significativa (-2,9%). La contrazione dei consumi è più forte tra le famiglie con livelli di spesa medio-alti.

Diminuisce del 3% la spesa media per generi alimentari e bevande (461 euro al mese), con un 35,6% di famiglie che dichiara di aver diminuito nel 2009 la quantità e/o la qualità dei prodotti: tra queste, il 63% dichiara di aver diminuito solo la quantità, mentre il 15% di aver diminuito anche la qualità. Rispetto al 2008, diminuisce la spesa media mensile per pane e cereali, per oli e grassi, per patate frutta e ortaggi, per zucchero, caffé e bevande.

La spesa non alimentare risulta stabile a livello nazionale e pari a 1.981 euro mensili. Diminuisce la spesa per servizi sanitari, tabacchi, comunicazioni, mentre risulta in aumento la spesa per combustibili ed energia, che si associa a un periodo invernale particolarmente lungo e rigido. Scende, dal 3,8% del 2008 al 3,6% del 2009, la quota della spesa per sanità (in particolare medicinali, dentista e visite mediche), risultato dovuto alla riduzione sia del numero di famiglie che effettua la spesa, sia della spesa da loro mediamente sostenuta. Diminuisce, oltre a quella per tabacchi (dallo 0,9% allo 0,8%), anche la quota di spesa destinata al tempo libero e alla cultura (dal 4,3% al 4,2%): in particolare, diminuisce la spesa per l’acquisto di nuove tecnologie, CD, DVD, giornali ed aumenta quella per l’acquisto di televisori (indotta dal passaggio al digitale terrestre), per attività sportive e per totocalcio, lotto e altri giochi con vincita.

Il 10,4% delle famiglie acquista generi alimentari presso gli hard-discount, percentuale in crescita tra le regioni del Centro (dal 9,8% al 10,5%). Il supermercato si conferma il luogo di acquisto prevalente (68,4%), soprattutto nel Centro-nord (superiore al 70%); nel Mezzogiorno, invece, ben il 76,9% delle famiglie continua ad acquistare presso il negozio tradizionale.

All’abitazione viene ormai destinato oltre 1/3 della spesa totale, quota che sale al 36,7% tra le famiglie del Centro. In aumento anche la spesa per onorari di professionisti e per pasti fuori casa. La quota di famiglie che occupano un’abitazione in affitto si attesta al 17,1%, come nel 2008, ma nel Nord la quota continua a scendere (dal 18,0% al 16,9%), mentre aumenta nel Centro e nel Mezzogiorno (dal 14,3% al 16,0% e dal 17,6% al 18,2% rispettivamente). La spesa media effettiva per il canone locativo, nel 2009, è pari a 372 euro e varia tra i 447 euro delle regioni del Centro e i 295 euro del Mezzogiorno.