Opinioni & Commenti

Così la Cina si è fatta bella agli occhi del mondo

di Umberto Folena

Per il resto del mondo resteranno nella memoria come i Giochi dei record frantumati da Usain Bolt, il giamaicano più allegro e veloce del pianeta, e le otto medaglie d’oro del pinnuto Michael Phelps, capace di mandare in soffitta Mark Spitz con le sue «appena» sette vittorie di Monaco 1972. Per i cinesi è stato il grande ballo d’ingresso in società. Proviamo a metterci nei loro panni. Per anni i cinesi popolari non avevano neppure potuto partecipare alle Olimpiadi. A poco a poco avevano acquistato credito e conquistato mercati su mercati, imponendo ovunque le loro merci (su metodi e qualità sorvoliamo), e conquistando podi. Ma erano sempre stati gli «strani comunisti», il popolo misterioso più sopportato – d’altronde avevano la bomba atomica ed erano tanti, tantissimi, una miriade – che accettato. Adesso sono parte integrante a pieno titolo della bella società.

Hanno sfoggiato il vestito migliore. Pechino è stata bonificata da barboni, ambulanti e donnine, mostrando di sé un volto lindo, ordinato e austero. Ad ogni crocicchio, semaforo, svincolo, angolo retto, sottopasso e sovrappasso era piazzato un soldatino sull’attenti, in guanti bianchi. Nella metropolitana – tirata a lucido, con l’aria condizionata, gli avvisi visivi e sonori, gli addetti con bracciale rosso a mettere in fila ostinati, scuotendo il capo, coloro che in fila non ci sanno stare, molto peggio di noi (i cinesi!) – i pechinesi si ammucchiavano (la fila, appunto) per far controllare borse e borsette meglio che negli aeroporti. E intanto i giornalisti, inscatolati e refrigerati sui bus-freezer, venivano tradotti come pinguini obbedienti da un palasport a uno stadio.

Che Giochi, ragazzi. Come potremo dimenticarci il Grande Gioco messo in scena la sera dell’apertura dal regista Zhang Yimou allo Stadio Nazionale, Stadio?, ma no, macchina teatrale di straordinaria complessità ed immenso fascino, perché quando mai avevamo visto sbucare dal pavimento – il prato l’avrebbero piazzato il giorno dopo, mattonella su mattonella d’erba – un globo di almeno venti metri di diametro? E chi non ha allargato la bocca in un oooh di ammirazione seguendo la folle corsa dell’ultimo tedoforo piegato a 90 gradi sulla cornice della copertura? Oppure intravedendo fatine come farfalle attraversare il cielo, sorrette di irrisori cavi d’acciaio?

I cinesi hanno di sé una percezione assai diversa da quella che la maggioranza di noi ha di loro. Per noi, la «civiltà» gliel’abbiamo portata noi. La nostra civiltà: il nostro mercato, i nostri hamburger e cocacola, il nostro abbigliamento, i caratteri latini che si affiancano, ma solo ogni tanto, agli ideogrammi. Per loro, noi barbari presuntuosi pretendiamo di insegnare la civiltà a loro, che ce l’hanno vecchia di settemila anni. Buonanotte. Pochi popoli sono più sciovinisti e nazionalisti dei cinesi. I quali però, essendo meritocratici fin nelle midolla (settemila anni di meritocrazia…), sanno riconoscere l’eccellenza. Ad esempio, hanno rispetto per gli italiani per ciò che in noi suscita compatimento, ilarità o indifferenza: l’Impero Romano e la sua civiltà capace di lasciare un segno indelebile nella storia. Durante la cerimonia inaugurale, di ogni nazione che sfilava nello stadio il giornalista della Cctv, la Rai cinese, ricordava succintamente continente, popolazione, economia e medaglie ad Atene 2004. Quando è entrata l’Italia, si è dilungato – eccezionalmente! – sull’antica Roma, sul Rinascimento, su Firenze e Venezia…

Per noi è stata l’Olimpiade delle poche medaglie, comunque meno rispetto a Sydney ed Atene, d’altronde i cinesi le loro le avranno pur strappate a qualcuno. Abbiamo fatto meglio di spagnoli e francesi ma la nostra tetragona tendenza all’autolesionismo ci ha impedito di accorgercene. Su 28 medaglie complessive, ben 5 le hanno conquistate atleti toscani. Siamo bravi a tirar di scherma (Aldo Montano e Salvatore Sanzo, bronzo entrambi), ad andare per mare (duplice argento per Luca Agamennoni nel canottaggio e l’intramontabile Alessandra Sensini nel windsurf) e – udite udite – spedir per le terre le nemiche (sportive) della patria con la judoka livornese Giulia Quintavalle, splendido oro a sorpresa e soprattutto ragazza solare, bella e simpatica.

Per loro, i pechinesi, sono state le Olimpiadi in cui, al termine di una settimana di angosciosa attesa, un bel mattino, dopo un giorno e una notte squassati da temporali, bufere di vento e piovaschi assortiti, hanno alzato gli occhi e hanno visto il cielo. La coltre grigia di umidità, per le ottimiste autorità del posto, o di smog, per i soliti inguaribili provocatori occidentali, era evaporata. Al suo posto c’era il cielo ma il cielo vero, celeste sbiadito ma sicuramente un cielo e celeste, non un effetto speciale, non una cartolina ritoccata con il pennarello. Il cielo e il sole, quello giallo che ti scalda, non la caligine che ti fa soltanto sudare, e sudare, e sudare.

Ci sarà ancora, oggi, il cielo sopra Pechino? Spenta la fiaccola, sopita l’ultima nota del grande ballo, i gentili ospiti con il naso lungo venuti da tutti gli Occidenti possibili se ne sono tornati a casa. I pechinesi sono rimasti. Forse – chi può dirlo? – sono tornati barboni, mendicanti e prostitute. Forse – glielo auguriamo – i soldatini in guanti bianchi sono rientrati nelle caserme. Le fabbriche hanno riaperto, i limiti al traffico sono stati aboliti e chissà dov’è finito il cielo. Da noi, ancora ci risuonano nelle orecchie increduli le parole del marciatore d’oro Alex Schwazer: non sono felice perché ho vinto, ma ho vinto perché sono felice. Se un giovane italiano – ma sì, italiano – dopo 50 chilometri e quasi 4 ore di marcia ha ancora abbastanza ossigeno e sale in zucca per regalare frasi del genere, perbacco, possiamo risorgere: c’è ancora un bel cielo azzurro sul nostro capo, per chi sa alzare il naso e contemplarlo.