Firenze

Don Marco Paglicci va a Salvador Bahia: «Così mi preparo a partire per la missione»

Mi chiamo Marco e sono un prete. Tra dicembre e gennaio partirò per il Brasile come missionario «fidei donum», che significa «dono della fede». È una formula usata dal 1957 per indicare i preti e i laici diocesani che vengono inviati a realizzare un servizio in una diocesi sorella. Parto per Salvador Bahia in continuità con un impegno che la Chiesa fiorentina si è presa dal 1965 nella persona di don Renzo Rossi.Sono felice di questa scelta perché risponde ad una chiamata ad essere felice nella missione, una vocazione che penso di aver sempre avuto. Forse per questo tra i 18 e i 20 anni iniziai a collaborare col Centro Missionario; forse per questo prima di entrare in seminario ho studiato Economia dello Sviluppo. Comunque sicuramente avevo in mente la missione quando il Signore mi ha chiamato ad essere prete. Pian piano il discorso si è approfondito.Alla fine del seminario non avevo escluso nessuna delle strade che mi si proponevano davanti e quindi ero disponibile anche a partire in missione. Tuttavia non avevo esplicitato in particolare questa disponibilità. Dopo averne parlato con le persone più vicine a me e sentendo gli interventi di papa Francesco su una «Chiesa in uscita», che va «nelle periferie», ho capito che tali parole erano rivolte anche a me. Cioè nel mio ministero specifico le espressioni del papa si traducevano in una piena adesione al progetto missionario del Signore, qualunque esso fosse. Per questo il 18 novembre 2013, circa tre anni fa diedi la mia disponibilità all’Arcivescovo, che rispose velocemente e con entusiasmo. Da lì è cominciato un dialogo tra me e il Cardinale Giuseppe che ha portato alla comune decisione di mandarmi a sostituire uno dei due preti della nostra missione fiorentina. Spero così di lasciare un po’ della mia ricchezza per amore di Gesù povero. Anche perché, quando decidi di vivere tutta la vita con una persona, ti accorgi dell’importanza delle tue scelte: l’amore o «è» oppure «non è». Nella relazione tra me e il Signore nella gente voglio che «sia». E allora è bene dare tutto.Se sarò a posto col visto, spero di partire già a metà dicembre per due motivi: per cogliere la possibilità di imparare meglio il portoghese nel periodo in cui là è estate (cioè le attività parrocchiali diminuiscono) e per organizzarmi con i miei confratelli – Luca Niccheri e Paolo Sbolci – in vista dell’incontro dei fidei donum italiani in Brasile che si terrà tra il 16 e il 20 gennaio.Nel prepararmi alla missione mi sono convinto di due cose:1) Se vado in Brasile come missionario, non sarò missionario in modo maggiore rispetto ai miei confratelli preti che rimangono in Italia. Essere fidei donum è semplicemente un «segno» di una Chiesa che deve essere ed è missionaria in qualunque parte del mondo.2) Partire come fidei donum oggi significa essere consapevoli che si fa parte di uno scambio tra due chiese diocesane sorelle. Perciò non si è più propriamente «missionari ad gentes», perché non si va tra persone «pagane», ma tra persone che sono in ricerca come me: solo nella misura in cui ti fai evangelizzare, diventi evangelizzatore. Gesù a Salvador Bahia, come a Barberino di Mugello, come a San Jacopino ci lavorava da molto prima che arrivassi io. Io voglio andare per mettermi prima di tutto in ascolto.Con questo animo, contento e un po’ intimorito, mi preparo alla partenza. Finito un corso sulla missione a Verona, mi attende il trasloco da Barberino (dove ero viceparroco) e poi una full immersion nel portoghese con l’aiuto di Aladia, una suora brasiliana presso Monte Senario. Contemporaneamente dovrò preparare la documentazione per il visto, i vaccini e i saluti alla famiglia, insegnando ai miei genitori come si usa Skype.Tutto pian piano procede e spero si concretizzi il prima possibile. Un prete senza una vera e propria comunità di riferimento non sta bene. Per questo sento anche il bisogno di ringraziare tutte le comunità che mi hanno accompagnato fino ad oggi e in particolare quella dei miei confratelli del seminario, quella di San Jacopino e quella dell’Unità Pastorale di Barberino, Cavallina e Montecarelli.Negli ultimi mesi ho pensato a tante implicazioni di questa scelta: vi immaginate la quantità di domande che sono sorte in questi anni e che ancora fanno capolino. Ma, se dopo tanto discernimento, do la mia disponibilità a Gesù e la Chiesa mi manda in missione in Brasile, di quali garanzie ho bisogno ancora? Non è questo che avevamo chiesto a Cristo, dare la vita per Lui? Certamente, come quando Pietro si propose di offrire la vita per Gesù, mi devo ricordare che sarà Lui a chiedermela come e quando vorrà… ma in fondo «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68).