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Ristabilire una cultura della Domenica

«Sono sempre più convinto, alla luce anche della situazione economica e sociale che stiamo vivendo, che i contenuti del decreto che consente la liberalizzazione degli orari sia quanto di più sbagliato si potesse fare». Turiddo Campaini, classe 1940, è il presidente del Consiglio di sorveglianza di Unicoop Firenze. La sua posizione sulle aperture nei giorni festivi è da tempo chiara, ed in qualche modo controcorrente provenendo da un rappresentante della grande distribuzione.

Anche di questo si parlerà nel corso del prossimo incontro dei Thè di Toscana Oggi a Prato, mercoledì 20 febbraio alle 16 («Consumatori ma non consumisti. Chiusure domenicali e iniziative di solidarietà» il titolo).

«La mia posizione può sembrare contraddittoria rispetto al ruolo che svolgo, in realtà non è così. Io rappresento una cooperativa che in Toscana associa 1,2 milioni di persone, e sottolineo persone, non consumatori. La vita delle persone non è solo consumi è molto di più: è affetti, famiglia, cultura, socialità. Se pensiamo a questo, un po’ più di equilibrio fra tempo del consumo e tempo delle relazioni non può che farci bene».

Anche le diocesi e le parrocchie si stanno muovendo per aderire all’iniziativa di Confesercenti di raccolta firme sulle aperture domenicali. Che cosa significa per lei ristabilire una cultura della domenica?

«Condivido molto questa iniziativa di Confesercenti e credo che anche la nostra cooperativa vi aderirà. Proprio per quanto dicevo prima, è assolutamente necessario ristabilire una cultura della domenica. Sul tema delle aperture domenicali la legislazione dovrebbe assegnare un ruolo di coordinamento a chi è più vicino al territorio. Il livello della governance regionale è quello giusto per una concertazione fra le parti interessate, così come lo è stato anche in passato».

Non crede, però, che centri commerciali e ipermercati anche Unicoop abbiano contribuito a instaurare un certo tipo di cultura, con i negozi fuori dai centri storici, orari continuati…?

«Credo che in parte sia vero. Noi oggi stiamo riflettendo proprio su questo modello distributivo. Ad esempio stiamo ristrutturando gli ipermercati trasformandoli in superstore, e dunque riduciamo la loro superficie di vendita. Nella nostra storia comunque abbiamo sempre guardato con attenzione alla collocazione urbanistica dei nostri punti vendita, cercando sempre di edificarli il più vicino possibile ai centri urbani, considerandoli sempre in un’ottica sociale».

Consumismo è una parola che non piace a nessuno. Sta di fatto, per come è impostata l’attuale società, se non si consuma – e a questo stiamo assistendo – questo ha un effetto negativo a catena su imprese, famiglie, lavoratori… Come vede, lei, un giusto equilibrio?

«Come accennavo prima, abbiamo abusato della parola “consumatore”. Adesso bisogna parlare di ’persona’, come soggetto che ha esigenze più complessive del solo consumare. Se penso alla famiglia, a chi lavora, alle imprese non c’è dubbio che è necessario un maggiore equilibrio. Oggi siamo ciò che siamo non per quello che consumiamo ma in base alle nostre relazioni, agli affetti che abbiamo. Personalmente se oggi dovessi dire cos’è che più ci manca non sono le merci, ma le relazioni appunto».

Unicoop è da tempo impegnata su iniziative di solidarietà – pensiamo al Cuore si Scioglie. Una vocazione ormai consolidata. Particolarmente stretto il rapporto con le Caritas, come è stato anche per il recente accordo con le Caritas diocesane. Qual è il senso in particolare di quest’ultima iniziativa per Unicoop?

«Il significato si ritrova nel concetto di coesione sociale. Stiamo vivendo in un contesto fortemente caratterizzato dalla crisi economica. Personalmente ritengo che le origini di questa crisi siano soprattutto di tipo culturale. Abbiamo smarrito il senso dell’altro, viviamo una condizione di estremo individualismo. Dobbiamo ritrovare il senso della comunità, l’interesse per il bene comune. Le iniziative della fondazione il Cuore si scioglie si ispirano a questo bisogno, e noi pensiamo che grazie ad una rete di persone, di associazioni che condividono le nostre stesse aspirazioni possiamo concorrere a quel cambiamento di cui oggi abbiamo fortemente bisogno».

Un’altra sua insistenza è quella degli stili di vita. Verso quale modello, a suo avviso occorre indirizzarsi? Come trasformare l’attuale crisi in opportunità di ripensamento?

«Sicuramente la crisi culturale ed economica ci impone nuovi stili di vita: più sobrietà, meno consumismo, più comunità, meno individualismo. Insieme e non da soli possiamo costruire una società più giusta».