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La grande speranza di un piccolo seme

Un pellegrino cammina sempre verso una meta, un pellegrino dà sempre senso al suo andare. Questa volta per noi, confratelli della Confraternita di San Jacopo, l’andare verso Roma non era solo tornare ad Limina Petri, ripetere il pellegrinaggio che altre volte abbiamo fatto con sempre rinnovata devozione. Questa volta avevamo un’attesa in più, una speranza da consegnare alle porte della meta: avevamo 21 pellegrini che nel loro presente erano detenuti in varie carceri del Lazio. Come due anni fa ci siamo incamminati con questi «liberi tra i liberi», detenuti liberati per il solo tempo di essere pellegrini, liberati per camminare sette giorni verso Roma come veri pellegrini.

A differenza di due anni fa questa volta l’impegno da parte nostra si è fatto triplice. Abbiamo organizzato tre pellegrinaggi con partenza da tre punti differenti a convergere verso Roma: Radicofani, Assisi e Montecassino; cinque detenuti per l’uno, dieci per l’altro e sei infine per il terzo, il mio, quello da me condotto.Così posso solo raccontare del cammino di Montecassino, della Via Francigena del sud percorsa a risalire. Posso dire dei due napoletani, detenuti a Cassino, trovatisi ad andare a piedi come mai avevano fatto in vita loro e che giorno dopo giorno si accorgevano, con stupore loro e nostro, che ce la potevano fare. Bravi Vincenzo e Ciro, siamo arrivati! Poi il giovane albanese, Flameng, con l’accento frusinate, attrezzato di tutto punto, che con la forza dei suoi anni sembrava quasi non sentire la fatica e camminava avanti a tutti insieme a Omar, marocchino musulmano, ma curioso di fare questa esperienza. Poi da Rebibbia erano arrivati Franco, romano di Roma, e Giuliano, destinato ad arrivare libero a Roma con il compiersi della sua pena il giorno prima dell’arrivo a San Pietro. Bel modo per festeggiare.

Sei pellegrini con i quali abbiamo cercato di condividere tutto il mondo della strada, con le sue fatiche, con il gioco costante della Provvidenza che si manifestava nei tempi e nei modi più improbabili e «geniali». Una strada condivisa nelle piccole attenzioni reciproche, nel far notare che chi cammina a fianco a te è prossimo e può avere bisogno, e può essere a te amico; nelle preghiere quotidiane presentate con moderazione e tranquillità all’inizio del giorno e al tempo dei pasti; e l’invito a venire alla S. Messa tutte le volte che era possibile. Una strada che abbiamo anche cercato di servire con il lavoro di segnalazione con l’Ichthus, il simbolo di questa Via, per aiutare i viandanti futuri che si incammineranno verso sud. Piccoli segni a vernice per il futuro. Siamo stati accolti: don Fortunato a Montecassino ha celebrato la Messa di partenza nel modo più bello che fosse possibile; a scendere dal monte ci è stata aperta la strada dal Parco e dal Consorzio Valle Liri che inauguravano per noi un nuovo sentiero… poi tutte le altre accoglienze, giorno dopo giorno, troppe lunghe da raccontare. L’ultimo tratto di via Appia, sull’antico basolato, nel settimo giorno, il giorno nel quale siamo partiti all’alba per arrivare in tempo da Papa Francesco per l’udienza del mercoledì.

E lì infine abbiamo incontrato gli altri pellegrini, abbiamo visto i loro visi simili ai nostri e sentito le esperienze che ci avvicinavano. Insieme siamo entrati in piazza; insieme siamo stati condotti fin sopra al sagrato e fatti accomodare di fianco al Papa. Qualcuno di noi, io compresa, ha potuto stare nella prima fila e con emozione attendere il passaggio del Papa che si soffermava per salutare ciascuno, uno ad uno. Io ora non ricordo bene; l’emozione confonde i pensieri. So di aver raccontato al Papa di questi bravi pellegrini che si trovava davanti, so di aver visto degli occhi lucidi che avevano ricevuto la stretta di mano e la benedizione del Santo Padre. So di avere una grande speranza che questo cammino abbia potuto gettare un piccolo seme. So di aver riposto tutto nelle mani di Dio. Noi in fin dei conti siamo solo pellegrini.