Vescovi Toscani

Giovannetti: Giustizia e pace si baceranno

Misericordia e verità s`incontreranno,giustizia e pace si baceranno.La verità germoglierà dalla terrae la giustizia si affaccerà dal cielo.Quando il Signore elargirà il suo bene,la nostra terra darà il suo frutto.Davanti a lui camminerà la giustiziae sulla via dei suoi passi la salvezza. Carissimi fratelli e sorelle,in questi giorni che ci preparano al grande mistero del Natale del Signore, e in cui il mondo conosce una nuova ondata di violenza e di guerra che sembra minacciare il futuro stesso dell’umanità e della sua pacifica e solidale convivenza, la nostra Diocesi celebra solennemente il VII Centenario della Nascita di sant’Andrea Corsini, carmelitano e vescovo di Fiesole, compatrono della nostra comunità ecclesiale. Il suo esempio di fedeltà a nostro Signore Gesù Cristo nell’esercizio della carità, nell’opera della giustizia e della pace costituisce un sicuro punto di riferimento per il nostro cammino di fede.

Nato a Firenze il 30 novembre 1301 dalla nobile famiglia Corsini, Andrea abbracciò la vita religiosa dopo alcuni anni di vita spensierata: entrato nel Convento dei Carmelitani di Firenze, dove si distinse ben presto per la sua vita di preghiera e di carità. Eletto superiore della sua provincia religiosa nel 1348, si prodigò eroicamente per curare e consolare i malati e i moribondi della terribile epidemia di peste che proprio quell’anno si diffuse in tutta Europa e che decimò anche la comunità carmelitana di Firenze.

Appena un anno dopo, papa Clemente VI lo nominava Vescovo di Fiesole. Nella Bolla con cui confermava l’elezione, il papa faceva riferimento non solo al suo «zelo per la religione, la cultura e la purezza della vita e dei costumi, l’abilità nel governare le anime», ma anche alla sua «circospezione nelle cose temporali, e gli altri meriti di molteplici virtù».

Nei circa ventiquattro anni nei quali guidò la Chiesa fiesolana, sant’Andrea dimostrò un vivissimo senso di carità pastorale, decidendo di risiedere a Fiesole contro la consuetudine dei suoi predecessori che da più di un secolo avevano trasferito la loro residenza a Firenze; compiendo numerose visite pastorali alle zone anche più lontane della Diocesi; curando in particolare la formazione dei candidati al sacerdozio e gettando così le basi del futuro Seminario diocesano, di cui è giustamente venerato come Patrono; amministrando infine con saggezza i beni della Chiesa e utilizzandoli con larghezza per il restauro di numerosi edifici sacri, fra i quali la Cattedrale di S. Romolo e il Santuario mariano di S. Maria Primerana. I poveri ebbero sempre in lui un rifugio sicuro e premuroso, e numerosi sono i fioretti che si conservano del suo eroico esercizio della carità. Sant’Andrea fu anche un convinto operatore di pace: il papa stesso lo inviò come suo legato a Bologna per dirimere una contesa sorta con i vicini Signori di Milano.

Fedele testimone di Gesù Cristo, sant’Andrea Corsini morì a Fiesole il 6 gennaio 1374: la sua fama di santità, diffusasi immediatamente a Fiesole e a Firenze, ha accompagnato il cammino della sua glorificazione, coronatosi con la canonizzazione da parte di Urbano VIII il 22 aprile 1629.

1.Gesù Cristo, unico salvatore dell’uomo «Tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’altissimo Gesù Cristo»: le parole che la liturgia ci chiama a ripetere nell’inno del Sanctus illustrano bene il nucleo del messaggio che la santità cristiana continuamente annuncia. Così, anche la vita di sant’Andrea Corsini riafferma per noi oggi la signoria e la centralità di Gesù Cristo per la nostra vita di cristiani e per la vita stessa del mondo. La fedeltà di sant’Andrea alla sua scelta di vita cristiana è infatti un annuncio credibile che Cristo è la sola verità dell’uomo e per l’uomo; la sua generosa dedizione di religioso e di pastore ce ne mostra il volto di misericordia; il suo eroismo nella carità ci rivela l’ardore dell’amore di Cristo dal quale ogni carità ha origine.

La santità stessa della Chiesa, ha scritto Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Novo millennio ineunte, promulgata a conclusione del Giubileo del Duemila, non è altro che la manifestazione del suo essere «Sposa di Cristo, per la quale egli si è donato, proprio al fine di santificarla»[1]. La santità cristiana è dunque, nel mutare dei tempi e della storia, la rinnovata proclamazione della signoria di Cristo e della sua mediazione unica per la nostra salvezza, così come l’apostolo Pietro afferma rispondendo ai sommi sacerdoti del tempio che lo interrogano: «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale dobbiamo essere salvati» (At 4,12).

Non illudiamoci: anche la comunità cristiana può esser tentata, in certi momenti, di trascurare la centralità e unicità di Gesù Cristo nostro salvatore, verità che è al cuore dell’annuncio evangelico. La testimonianza dei santi, e in particolare di sant’Andrea Corsini, è dunque l’invito benedetto che Dio ci rivolge perché riscopriamo l’urgenza anche missionaria della nostra identità di cristiani. Nessuno, infatti, deve vergognarsi di Gesù Cristo! Perché, come ci ricorda il Concilio riferendosi ancora al citato discorso di Pietro, «la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto (cfr. 2Cor 5,15), dà all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza perché egli possa rispondere alla suprema sua vocazione; né è dato in terra un altro nome agli uomini in cui possano salvarsi (cfr. At 4,12). Crede ugualmente di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana»[2].

Si aprono così, davanti allo sguardo della nostra fede, gli immensi scenari della storia dell’umanità che ha più che mai urgenza di ricevere dai cristiani la buona testimonianza della salvezza operata da Cristo. «Gesù Cristo: voi ne avete sentito parlare – esclamava Paolo VI nel suo celebre discorso a Manila il 29 novembre 1970 –, anzi voi, la maggior parte certamente siete già suoi, siete cristiani. Ebbene, a voi cristiani io ripeto il suo nome, a tutti io lo annunzio: Gesù Cristo è il principio e la fine; l’alfa e l’omega. Egli è il re del nuovo mondo. Egli è il segreto della storia. Egli è la chiave dei nostri destini… Gesù Cristo! Ricordate: questo è il nostro perenne annunzio, è la voce che noi facciamo risuonare per la terra, e per tutti i secoli dei secoli»[3]. Davanti a un sempre più diffuso sincretismo religioso, che tende a cancellare le identità storiche e soprattutto religiose in nome di una mal compresa idea di tolleranza, la comunità cristiana non può far mancare la sua voce di popolo radunato nel nome di Cristo e che in Cristo riconosce, appunto, la chiave, il centro e la fine di tutta la storia umana.

La certezza condivisa da tutta la tradizione cristiana che i «semi del Verbo» sono presenti anche nel messaggio delle altre religioni, così come nel pensiero di tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero, non riduce il nostro impegno missionario e l’urgenza del nostro annuncio: è infatti il Cristo risorto stesso a operare nel cuore degli uomini con la virtù del suo Spirito… ed «è ancora lo Spirito che sparge i “semi del Verbo” presenti nei riti e nelle culture e li prepara a maturare in Cristo»[4]. Così, i «semi del Verbo» costituiscono quella preparazione evangelica che attende, attraverso la nostra testimonianza e il nostro annuncio, la sua piena realizzazione in Cristo, l’uomo perfetto, l’unigenito del Padre, «pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14).

L’appello di Cristo è risuonato particolarmente nel cuore del giovane Andrea Corsini, chiamandolo a una donazione piena e radicale a quel Dio che non delude le nostre speranze più profonde. Mi rivolgo, dunque, a voi, carissimi giovani, perché non abbiate paura di lasciarvi conquistare da Gesù Cristo! Fate di lui il vostro amico, il vostro compagno, il vostro maestro interiore! E faccio mie le parole che il papa vi ha rivolto nell’indimenticabile Giubileo dei Giovani, a Tor Vergata, invocando dal Signore che la vostra generosità possa aprirsi, in coloro cui il Signore lo farà capire, anche all’avventura stupenda della vocazione sacerdotale o religiosa: «Sì, cari amici, Cristo ci ama e ci ama sempre! Ci ama anche quando lo deludiamo, quando non corrispondiamo alle sue attese nei nostri confronti. Egli non ci chiude mai le braccia della sua misericordia. Come non essere grati a questo Dio che ci ha redenti spingendosi fino alla follia della croce? A questo Dio che si è messo dalla nostra parte e vi è rimasto fino alla fine?»[5].

2. «Pace e giustizia si baceranno»2.1 La gravità del momento attualeÈ nella luce di Cristo che, come cristiani, siamo chiamati a leggere il drammatico momento che l’umanità sta vivendo: un tempo gravissimo, in cui è emerso all’attenzione internazionale, attraverso la barbarie degli attentati dell’11 settembre scorso, un conflitto che da tempo andava preparandosi e che, in ultima analisi, ha le sue radici nella profonda disuguaglianza sociale ed economica che caratterizza l’attuale situazione dell’umanità. Già più di trenta anni fa, in una lettera dal sapore profetico, e che abbiamo volentieri riascoltato anche in alcuni incontri di preghiera promossi in queste settimane nella nostra Diocesi, il Sindaco di Firenze Giorgio La Pira ammoniva: «Pax in terra! Madre Reverenda, bisogna puntare con estrema decisione, con totale impegno sopra questa domanda: questa grazia della Pace alla intera famiglia umana deve essere concessa dal Padre celeste; il fiume di Pace di cui parla Isaia deve irrigare con abbondanza la città degli uomini, come irriga la città di Dio: Il Signore non può negare questa grazia così fondamentale dalla quale dipende l’esistenza della civiltàumana, del genere umano e, forse, dello stesso pianeta. […] E allora? Allora la risposta è evidente: bisogna avere il coraggio di scegliere la pace e di agire a tutti i livelli in conformità a questa scelta. Ma per fare questa scelta ci vuole davvero un atto smisurato di fede: la fede di Abramo, Spes contra spem!»[6].

L’intelligenza della fede suggerisce, inoltre, che la gravità della situazione mondiale e le tensioni dovute alla palese ingiustizia della distribuzione dei beni della terra, non spiegano, da sole, la violenza cui assistiamo in questi ultimi mesi: la malizia del cuore umano, infatti, è spesso tentata più di aggravare e di inasprire i conflitti che di cercare vie, anche coraggiose, per ridimensionarne la gravità e per risolverli. Le stesse strutture di peccato che tengono in piedi lo sfruttamento e l’oppressione di interi popoli, «si radicano nel peccato personale e, quindi, sono sempre collegate ad atti concreti delle persone, che le introducono, le consolidano e le rendono difficili da rimuovere. È così che esse si rafforzano, si diffondono e diventano sorgente di altri peccati, condizionando la condotta degli uomini»[7].

La strada della prevaricazione, della violenza, della distruttività, però, anche se l’accecamento del cuore può farla apparire talvolta la soluzione più a portata di mano, conduce sempre a situazioni ancora più difficili e dolorose. Essa, infatti, mostra di essere nient’altro che l’espressione del nostro egoismo e non di un autentico desiderio di superare le difficoltà. Come scriveva il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, giustiziato dai nazisti nel 1945 come esponente della resistenza al regime, in situazioni drammatiche come quella che stiamo attraversando, «per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene. Solo da questa domanda storicamente responsabile possono nascere soluzioni feconde, anche se provvisoriamente molto mortificanti. In una parola: è molto più facile affrontare una questione mantenendosi sul piano dei princìpi che in atteggiamento di concreta responsabilità»[8].

Nella luce di Cristo, dunque, il compito della comunità cristiana, a tutti i livelli e in tutte le realtà in cui siamo chiamati a dare la nostra testimonianza – la famiglia, la scuola, gli ambienti di lavoro e di vita – è quello di guardare al futuro e di coltivare la virtù della speranza, quella speranza di cui ci parlano i profeti e che è testimoniata dai santi. E in effetti, un segno non secondario della gravità del momento presente è rappresentato anche da un certo imbarazzo con cui la comunità ecclesiale ha reagito alla situazione attuale, sottraendosi spesso a una parola pubblica e chiara.

2.2 La liturgia ci insegna come chiedere la paceDa sempre la Chiesa non disgiunge l’invocazione per la pace da quella per la giustizia. Così, infatti, recita l’orazione colletta della Messa Per la pace e la giustizia: «O Dio, che chiami i tuoi figli operatori di pace, fa’ che noi, tuoi fedeli, lavoriamo senza stancarci per promuovere la giustizia che sola può garantire una pace autentica e duratura»[9]. Parole che ricorrono quasi identiche nell’orazione colletta della Messa di sant’Andrea Corsini dove si invoca dal Signore il dono di «lavorare instancabilmente per quella giustizia che garantisce pace vera e duratura»[10].

Sant’Andrea, infatti, unì sempre la sua singolare capacità di conciliare gli animi – anche a costo del sacrificio personale, come avvenne quando, a Bologna, subì per alcuni giorni la carcerazione – a un profondo senso della giustizia, che gli valse il ruolo di ricercatissimo mediatore in tante contese di carattere anche civile ed economico. La sua pratica della giustizia si concretizzò, del resto, anche nelle innumerevoli opere di carità e di assistenza che compiva personalmente o che delegava ai suoi sacerdoti e collaboratori, esortandoli a mostrare in questo modo il volto misericordioso di Dio. Egli era infatti ben consapevole che non può darsi una pacifica convivenza tra le persone né tanto meno tra i popoli senza che si stabilisca quella giustizia che è uno dei diritti fondamentali della persona umana. Abbiate paura della collera dei poveri[11], ammoniva Paolo VI già più di trent’anni fa, suggerendo l’urgenza di dare risposta a quelle necessità degli ultimi della terra che, se troppo a lungo ignorate, finiscono per manifestarsi anche con forme in sé inaccettabili.

Qualche anno fa, in un incontro a Vallombrosa, mi colpì sentire Don Giuseppe Dossetti che invitava tutti con insistenza alla preghiera per la pace, proprio quando, in apparenza, sembrava che nulla la minacciasse sul panorama internazionale. Si trattava, evidentemente, di un’intuizione spirituale frutto della preghiera e della consapevolezza che la pace non è solo una conquista degli sforzi dell’uomo, ma anche e soprattutto un dono che dobbiamo invocare con insistenza dal Signore. Pertanto, la gravità della situazione attuale non deve far venir meno la speranza. Al contrario, essa ci invita ad accrescere l’intensità della nostra preghiera fiduciosa. «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto» (Lc 11,9), ci esorta il Signore Gesù, invitandoci a quella confidenza nella quale possiamo esprimere davanti a lui anche l’angoscia e la preoccupazione per tutte le nostre difficoltà. La preghiera cristiana, infatti, non è soltanto una preghiera di lode, ma anche una supplica che sale incessante a Dio perché si prenda a cuore le sorti della storia e dell’umanità. I nostri quotidiani momenti di preghiera, le nostre liturgie, le nostre riunioni, sono chiamati a diventare occasioni in cui riscoprire il valore altissimo della preghiera e la sua singolare efficacia. Quando, infatti, la preghiera sgorga da cuori sinceri e che sinceramente si affidano alla misericordia e alla bontà di Dio non resta mai senza risposta.

2.3 Prima di tutto la giustiziaCarissimi fratelli e sorelle, la grande tradizione dei Padri, la dottrina sociale della Chiesa e il magistero dei papi sul tema della giustizia non lasciano spazio a dubbi o incertezze. Già Giovanni XXIII affermava, chiamando a testimoni le parole di sant’Agostino, che, «come nei rapporti tra i singoli esseri umani, agli uni non è lecito perseguire i propri interessi a danno degli altri, così nei rapporti fra le comunità politiche, alle une non è lecito sviluppare se stesse comprimendo od opprimendo le altre. Cade qui opportuno il detto di sant’Agostino: Abbandonata la giustizia, a che si riducono i regni, se non a grandi latrocini?»[12].

Da parte sua, Paolo VI ha riaffermato a più riprese la gravità e l’inaccettabilità degli equilibri mondiali così come si sono oggi cristallizzati: «nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario»[13]. E ancora, riferendosi al rapporto tra i popoli e gli stati e con espressioni forti e singolarmente profetiche: «Una cosa va ribadita di nuovo: il superfluo dei paesi ricchi deve servire ai paesi poveri. La regola che valeva un tempo in favore dei più vicini deve essere applicata oggi alla totalità dei bisognosi del mondo. I ricchi saranno del resto i primi a esserne beneficiati. Diversamente, la loro avarizia inveterata non potrà che suscitare il giudizio di Dio e la collera dei poveri, con conseguenze imprevedibili. Chiudendosi dentro la corazza del proprio egoismo, le civiltà attualmente fiorenti finirebbero con l’attentare ai loro valori più alti, sacrificando la volontà di essere di più alla bramosia di avere di più»[14].

Il fatto che meno di un terzo dell’umanità utilizzi circa il 90% delle risorse del pianeta è un’ingiustizia che non può essere tollerata, e le cui conseguenze sempre più sfuggono al controllo di coloro che hanno in mano le sorti della politica mondiale: la suggestiva formula coniata da Paolo VI, secondo la quale «lo sviluppo è il nuovo nome della pace»[15] non è altro che l’intuizione profetica per cui solo un’equa distribuzione dei beni della terra può portare a una pacifica e stabile convivenza dei popoli. «Combattere la miseria e lottare contro l’ingiustizia è promuovere, assieme al miglioramento delle condizioni di vita, il progresso umano e spirituale di tutti, e dunque il bene comune dell’umanità. La pace non si riduce a un’assenza di guerra, frutto dell’equilibrio sempre precario delle forze. Essa si costruisce giorno dopo giorno, nel perseguimento d’un ordine voluto da Dio, che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini»[16].

La formula di Paolo VI ha trovato eco nella riflessione dell’attua­le pontefice, il quale, facendo riferimento all’espressione cara alla tradizione per cui Opus iustitiae pax, la pace è frutto della giustizia, suggerisce che «oggi si potrebbe dire, con la stessa esattezza e la stessa forza di ispirazione biblica (cfr. Is 32,17; Gc 3,18): Opus solidaritatis pax, la pace come frutto della solidarietà»[17]. La solidarietà è dunque, oggi più che mai, il nuovo nome della pace, davanti a disuguaglianze che non possono essere superate lasciando semplicemente i popoli al loro destino: la campagna per la remissione del debito internazionale promossa in occasione del Giubileo del Duemila[18] e alla quale anche la nostra Diocesi ha generosamente contribuito è una delle possibili risposte a questa delicatissima situazione. «La pace del mondo è inconcepibile se non si giunge, da parte dei responsabili, a riconoscere che l’interdipendenza esige di per sé il superamento della politica dei blocchi, la rinuncia a ogni forma di imperialismo economico, militare o politico, e la trasformazione della reciproca diffidenza in collaborazione. Questa è, appunto, l’atto proprio della solidarietà tra individui e nazioni»[19].

2.4 «Mai più la guerra!»L’azione militare cui stiamo assistendo in questi mesi è certamente un’operazione contro il terrorismo. E tuttavia, essa è di fatto una guerra, cui anche l’Italia partecipa, una guerra che inevitabilmente evoca ricordi dolorosi e suscita nelle coscienze un disagio profondo per il fatto che, in definitiva, sono soprattutto gli innocenti che ne pagano il prezzo più alto. Senza contare gli sviluppi e gli effetti che essa potrà produrre, anche a lungo termine, nei già delicati rapporti tra Occidente e Oriente.

Il magistero degli ultimi pontefici, tuttavia, ci offre unanimemente una risposta decisa e ferma circa la possibilità di risolvere con le armi i conflitti politici tra i popoli e gli stati. Già Benedetto XV parlava della guerra come di «una inutile strage»[20]. Analogamente essa è stata condannata da Pio XII, cui si deve la celebre espressione: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può essere perduto con la guerra»[21]. Dedicando un’intera enciclica al tema della Pace sulla terra, Giovanni XXIII ha scongiurato a più riprese i governanti del mondo a non ricorrere alla guerra e a «non risparmiare fatiche per imprimere alle cose un corso ragionevole e umano»[22].

Così Paolo VI, parlando all’assemblea dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, usava toni solenni per affermare: «Non gli uni contro gli altri, non più, non mai! A questo scopo principalmente è sorta l’Organizzazione delle Nazioni Unite; contro la guerra e per la pace! Ascoltate le chiare parole d’un grande scomparso, di John Kennedy, che quattro anni or sono proclamava: “L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità”. Non occorrono molte parole per proclamare questo sommo fine di questa istituzione. Basta ricordare che il sangue di milioni di uomini e innumerevoli e inaudite sofferenze, inutili stragi e formidabili rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell’intera umanità!»[23].

Tutti poi ricordiamo il grido profetico di Giovanni Paolo II nell’imminenza della guerra del Golfo Persico nel 1991, grido che egli ha ripreso e ampliato nell’enciclica Centesimus annus. «Mai più la guerra, che distrugge la vita degli innocenti, che insegna a uccidere e sconvolge egualmente la vita degli uccisori, che lascia dietro di sé uno strascico di rancori e di odi, rendendo più difficile la giusta soluzione degli stessi problemi che l’hanno provocata!»[24].

Un grido che volentieri facciamo nostro come monito e come incitamento a una via diversa sulla quale affrontare le crisi internazionali, così come le tensioni che attraversano la nostra vita quotidiana in cui, in modo analogo ma non meno significativo, siamo chiamati a portare la pace e la riconciliazione, sull’esempio di Gesù Cristo, colui che è la nostra pace, e che ha fatto dei due un popolo solo nella carità (cfr. Ef 2,14).

3. Beati gli operatori di pace e di giustizia! Carissimi fratelli e sorelle, una vera preghiera è sempre una preghiera che coinvolge la nostra vita e dunque ci chiama a mettere in pratica quanto chiediamo a Dio. Per questo, invocare da Dio il dono della giustizia e della pace significa diventare, noi per primi, operatori di giustizia e di pace, secondo l’invito della beatitudine di Gesù: «Beati gli operatori pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,9-10).

La costruzione della pace non è un compito riservato solo ai potenti della terra e alle grandi istituzioni internazionali. Noi stessi dobbiamo farci operatori di pace in tutti gli ambienti in cui viviamo: prima di tutto la famiglia, dove la pace è dialogo, comprensione, affetto e stima reciproci, clima indispensabile per una serena crescita dei figli; nelle nostre comunità parrocchiali, nei gruppi, dove la pace non è solo collaborazione e fraternità gli uni con gli altri, ma anche testimonianza della verità della nostra fede offerta a tutti coloro che ci incontrano; nelle comunità religiose e nei rapporti tra i confratelli nel sacerdozio, dove la pace è ancora una volta stima reciproca e incoraggiamento nella via del bene.

Non possiamo, infatti, accontentarci di una pace che sia semplice assenza di tensioni e di conflitti: la pace è un dono che si fa compito di costruire rapporti di collaborazione e di sviluppo, di mettere a frutto le energie e l’entusiasmo di tutti per una reale crescita nella comunione. Di estrema importanza, in particolare, è l’attenzione che occorre dare alla educazione alla pace, in particolare per i giovani, insegnando loro che la pace non coincide mai con l’indifferenza per quello che ci accade intorno, ma è il frutto del nostro sforzo e della nostra capacità di costruire alternative e di inventare nuovi stili di vita, di discussione, di confronto, nei quali la pace costituisca un principio irrinunciabile. Che non accada, soprattutto, che la nostra sollecitudine per la pace cessi nel momento in cui viene meno la preoccupazione immediata della guerra e della crisi internazionale che stiamo vivendo. Il tema dell’educazione alla pace deve anzi divenire un tema centrale nei progetti formativi degli operatori pastorali, degli animatori dei gruppi e dei movimenti, così come della programmazione dei centri culturali.

Analogamente, operare per la giustizia significa, prima di tutto, dedicare le nostre energie e la nostra azione all’aiuto verso i poveri, imparando a vedere nel loro volto il volto di Cristo povero e sofferente. In questo, ancora una volta, ci è di conforto e di stimolo l’esempio di sant’Andrea Corsini e dell’eroismo della sua carità verso i bisognosi. Occorre poi, davanti ai messaggi contraddittori che contraddistinguono il nostro tempo, imparare a mettere in discussione i modelli consumistici ed edonistici che i mezzi di comunicazione ci propongono e scoprire la bellezza di uno stile di vita più semplice, sobrio, essenziale. Le nostre scelte quotidiane, infatti, non sono prive di conseguenze per coloro che soffrono per l’ingiustizia delle grandi strutture economiche: l’attenzione che poniamo per rendere sobrio ed essenziale il nostro stile di vita è il modo di vivere concretamente la povertà evangelica richiesta a tutti i battezzati. Non mancano, del resto, gli strumen­ti per opporsi a questi meccanismi iniqui: penso al mercato equo e solidale, alla Banca etica, all’economia di comunione, al consumo critico, apprezzabili tentativi di costruire sistemi alternativi allo sfruttamento spesso senza limiti del lavoro dei più poveri. Anche in questo caso, infine, l’impegno educativo riveste un ruolo decisivo per trasmettere soprattutto alle giovani generazioni il vero senso della giustizia e la necessità di perseguirla come bene supremo per la convivenza umana.

Il tempo di Avvento che si apre ormai davanti a noi e il clima di più intensa preghiera e meditazione cui ci invita in preparazione al Natale del Signore, può dunque essere un tempo propizio per compiere scelte di pace e di giustizia e per orientare in maniera nuova e più evangelica la nostra vita: sperimenteremo così la beatitudine promessa da nostro Signore Gesù Cristo a coloro che lo seguono e che da lui imparano i sentieri della giustizia e della pace.

Penso, ancora una volta, in particolare ai giovani, cui è affidato il futuro della nostra civiltà e che dunque hanno una responsabilità e un’opportunità unica di fare del mondo un luogo di convivenza pacifica e solidale. Non lasciatevi sfuggire l’opportunità di costruire la pace e la giustizia! Siate quelle «sentinelle del mattino» che il papa ha evocato durante la Veglia della Giornata Mondiale della Gioventù: «Nel corso del secolo che muore – vi diceva quella sera – giovani come voi venivano convocati in adunate oceaniche per imparare a odiare, venivano mandati a combattere gli uni contro gli altri… Oggi siete qui convenuti per affermare che nel nuovo secolo voi non vi presterete a essere strumenti di violenza e di distruzione; difenderete la pace, pagando anche di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete a un mondo in cui altri esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di rendere questa terra sempre più abitabile per tutti»[25].

4. La pace e il dialogo con le altre religioniUno degli aspetti che maggiormente preoccupano riguardo alla crisi internazionale che stiamo attraversando è certamente il fatto che essa investe anche il rapporto con la religione islamica. In realtà, da tempo l’islam non è più una religione lontana e confinata nel mondo medio-orientale: anche nella nostra Diocesi è ormai consueto incontrare donne musulmane, spesso velate, che portano i loro figli anche nelle nostre scuole cattoliche, così come sono molti gli uomini di origine islamica che si sono inseriti nel nostro mondo del lavoro. La comunità cristiana non ha mancato di offrire il suo aiuto concreto e pratico a questi fratelli e sorelle non di rado costretti a lasciare la propria terra a causa della guerra: penso, in particolare, ai tanti uomini e donne che hanno trovato ospitalità nella nostra Diocesi.

Il dialogo con l’islam non è, tuttavia, privo di difficoltà e di incognite. Esso, infatti, investe direttamente alcuni diritti fondamentali della persona che non possono essere in nessun modo compromessi, anche in nome di particolari convinzioni religiose: la libertà di espressione, di pensiero, di fede religiosa, soprattutto il principio della sana laicità dello stato, irrinunciabile conquista della riflessione politica e teologica dell’Occidente. Nell’incontro che la nostra Diocesi ha promosso alla fine del mese di ottobre proprio intorno a questi temi, il gesuita P. Samir Khalil Samir, egiziano, forse il massimo conoscitore cattolico del mondo islamico, ci ha offerto un quadro assai preciso e chiaro della situazione. Come si sta opportunamente facendo in molte comunità parrocchiali, invito tutti a uno studio attento e approfondito di questo fenomeno che sempre più tocca da vicino il nostro stesso quotidiano e che non possiamo permetterci di ignorare nella sua storia e nella sua fisionomia attuale.

4.1 La necessità di costruire il dialogoLa recentissima iniziativa del papa di esortare a un digiuno il prossimo 14 dicembre, in coincidenza della conclusione del ramadan, così come l’invito rivolto ai responsabili di tutte le religioni del mondo a tornare ad Assisi il 24 gennaio 2002 per elevare una preghiera corale per la pace, costituiscono forti richiami all’esigenza di costruire un dialogo effettivo con i fratelli musulmani. Il dialogo, infatti, è l’unica via lungo la quale è possibile costruire un futuro di convivenza e di rispetto reciproco. Occorre, pertanto, favorire momenti di conoscenza reciproca, di incontro, di preghiera comune. La comunione della preghiera e della difesa dei valori che ci accomunano costituirà certamente una solida base sulla quale edificare la società di domani, in cui vivremo sempre più a stretto contatto gli uni degli altri. 4.2 Un dialogo fondato sulla reciprocitàIl dialogo va poi ricercato sulla base di una vera ed effettiva reciprocità: al rispetto che i musulmani chiedono e solitamente ottengono nelle nostre zone deve infatti corrispondere un analogo rispetto delle conquiste civili e di libertà proprie del mondo occidentale, così come il rispetto delle altre confessioni religiose, particolarmente del cristianesimo, la cui storia e il cui messaggio sono saldamente legati con la tradizione storica e culturale dell’Europa. Né è giusto, in nome della tolleranza e del dialogo, cancellare i gravissimi atti di intolleranza e di persecuzione che, in varie parti del mondo, i cristiani subiscono da parte di fratelli musulmani.

La reciprocità deve soprattutto calarsi nell’orizzonte della cultura e così preparare le condizioni per un futuro finalmente pacifico e riconciliato: occorre imparare a pensare in modo nuovo i nostri rapporti, e a progettare forme di vera convivenza, abbattendo il muro di inimicizia e di separazione e costruendo i ponti dell’amicizia e della fraternità. Che non ci sia più nessun credente, cristiano o musulmano, che possa pensare di dover cancellare i propri fratelli dalla storia per affermare la propria fede.

4.3 Riscoprire la nostra identità cristianaUn vero atteggiamento di apertura e di dialogo deve provocare la nostra comunità a testimoniare con maggior convinzione e verità la propria appartenenza di fede e ad annunciarla nel momento stesso in cui esercita la carità dell’accoglienza e del dialogo. Il dialogo non mortifica la nostra identità di cristiani: piuttosto ne mette in luce le carenze, e dunque è invito alla conversione e a un maggiore impegno. In questo, non mancano gli esempi luminosi di uomini e donne che hanno vissuto e testimoniato la volontà del dialogo fino a prezzo della loro vita, come per esempio i sette trappisti algerini, le cui parole di pace, pronunciate nella consapevolezza del martirio cui andavano incontro, restano come semi di quella convivenza che è il destino inevitabile della comunità umana.

Grandemente significativo, in particolare, il testamento spirituale di frère Christian, il priore dell’Abbazia di Tibhirine, nel quale si trovano parole di viva speranza e di profonda fede cristiana: «Ora potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre per contemplare con lui i Suoi figli dell’Islam così come li vede Lui, tutti illuminati dalla gloria del Cristo, frutto della Sua Passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la comunione, giocando con le differenze. Di questa vita perduta, totalmente mia e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per questa gioia, attraverso e nonostante tutto».

4.4 Gerusalemme e la nuova famiglia dei popoliMa è ancora a Giorgio La Pira che desidero affidare una parola di speranza per il futuro di questo dialogo oggi così delicato e che investe assai da vicino anche i luoghi benedetti della Terra Santa, dove la nostra Diocesi si è recata in pellegrinaggio il mese di agosto scorso. Scriveva La Pira nel 1973, formulando un sogno che non ha perduto nulla della sua carica ideale e profetica riguardo a quella unica famiglia di Abramo formata da ebrei, cristiani e musulmani che ha, secondo le sue parole, «un fondo storico comune, un destino spirituale, culturale ed, in certo senso, anche politico comune»[26]. «Permettete che finisca con un sogno – concludeva il Sindaco di Firenze – sognando come realizzate l’unità, la giustizia e la pace nella triplice famiglia abramitica; come realizzato cioè il “sogno unitivo” di Abramo; sognando cioè come diventata storia effettiva dei popoli della famiglia di Abramo e dell’intera famiglia dei popoli l’“utopia” di Abramo. Si vedrebbe allora la Terra Santa, la terra dei patriarchi, la terra d’Israele e d’Ismaele, la terra di Cristo, di Maria, degli apostoli, la terra della Chiesa e dei santi, diventata visibilmente la terra attrattiva, il centro attrattivo del mondo. E si vedrebbe Gerusalemme diventata, come il suo stesso nome dice, o come è nel suo stesso destino soprannaturale e storico, la capitale non di una sola nazione, ma di tutte le nazioni, la città della pace universale, la città dell’universale adorazione»[27]. Conclusione Fratelli e sorelle carissimi, sta davanti a noi il tempo dell’Avvento, tempo mariano per eccellenza che ci prepara alla celebrazione del Natale. Rivolgiamo, dunque, la nostra preghiera a Maria, colei la cui potente intercessione ci incoraggia a supplicare con fiducia il Signore. Il carmelitano sant’Andrea Corsini anche in questo ci è maestro: tutti i suoi biografi sono concordi nel far riferimento al­l’in­ten­sità della sua pietà mariana. Ed è alla Vergine Maria che la tradizione attribuisce le belle parole di incoraggiamento che convinsero Andrea ad accettare il suo incarico di Vescovo: «Tu sei il mio servo, perché io ti ho eletto, e in te mi glorierò».

Maria, figlia di Sion, colei che, secondo il saluto di Elisabetta, è beata per la sua fede, è la porta attraverso la quale sale a Dio la preghiera dei credenti. Ma Maria è anche la regina, la Madre di Dio associata alla regalità del Figlio e che con il Figlio collabora all’opera cosmica della redenzione. Così la invoca sant’Anselmo: «Il cielo, gli astri, la terra, i fiumi, i giorni, la notte e tutto ciò che è sotto­mes­so al potere o all’uso dell’uomo, nella loro bellezza perduta si rallegrino, nostra Signora, di essere per mezzo tuo in qualche modo risuscitati e favoriti da una nuova, ineffabile grazia, perché tutto ciò che era morto risorge con gioia»[28].

Regina degli angeli, regina del­l’u­ni­ver­so, Maria è regina della pace, colei nel cui grembo si è fatta di nuovo pace fra il cielo e la terra, e per la cui incondizionata disponibili­tà all’azione dello Spirito Santo Cristo ha portato la salvezza al mondo intero e l’ha riammesso alla comunione con il Padre celeste. Per questo non dobbiamo stancarci di invocare l’intercessione della Regina della Pace, anche con la preghiera del S. Rosario, perché nel mondo cessi, ovunque, l’orrore della guerra, e i cuori degli uomini si aprano finalmente al dialogo e alla fratellanza.

L’Avvento è tempo di preghiera, di riflessione, ma anche di concreto impegno di carità. Desidero dunque invitare tutti a guardare a Betlemme e particolarmente ai giovani della città natale del Signore che, in questa drammatica situazione di conflitto, rischiano di essere privati del diritto all’istruzione. Betlemme è nel cuore di ogni cristiano, lo è ancora di più in quello della nostra comunità ecclesiale per via del legame di profondo affetto e sincera amicizia che da alcuni anni si è consolidato nell’esperienza dei pellegrinaggi. Non facciamo mancare, allora, il nostro sostegno economico, il nostro aiuto concreto nelle forme che vi saranno illustrate in queste settimane.

Affidandovi di cuore all’intercessione del nostro sant’Andrea Corsini, morto il giorno dell’Epifania e dunque nel cuore del mistero natalizio, e a quella di Maria Santissima, Regina della pace, auguro con affetto a tutti un Santo Natale.+ Luciano, Vescovo Fiesole, 30 novembre 2001VII Centenario della Nascita di sant’Andrea Corsini Note[1] Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte (6 gennaio 2001), n. 30.

[2] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (7 dicembre 1965), n. 10.

[3] Paolo VI, Discorso tenuto a Manila il 29 novembre 1970.

[4] Giovanni Paolo II, Redemptoris missio (???), n. 28.

[5] Giovanni Paolo II, Omelia per la S. Messa di chiusura della XV Giornata Mondiale della Gioventù, Tor Vergata (Roma), 20 agosto 2000, n. 4.

[6] Giorgio La Pira, Lettere alle Claustrali, Vita e Pensiero, Milano 1978, Lettera circolare alle claustrali del 27 maggio 1965, p. 509.

[7] Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), n. 36.

[8] Dietrich Bonhoeffer , Resistenza e Resa. Lettere e appunti dal carcere, Ed. S. Paolo, Cinisello Balsamo 1988, p. 64.

[9] Messale Romano, Orazione Colletta della Messa per la pace e la giustizia.

[10] Messale proprio della Chiesa fiesolana, Orazione Colletta della Messa in onore di sant’Andrea Corsini.

[11] Cfr. Paolo VI, Populorum progressio (26 marzo 1967), n. 49.

[12] Giovanni XXIII, Pacem in terris (11 aprile 1963), n. 51.

[13] Paolo VI, Populorum progressio, n. 23.

[14] Ivi, n. 39.

[15] Ivi, n. 87.

[16] Ivi, n. 76.

[17] Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, n. 39.

[18] Cfr. Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, n. 14.

[19] Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, n. 39.

[20] Benedetto XV, Nota del 1° agosto 1917.

[21] Pio XII, Radiomessaggio del 24 agosto 1939.

[22] Giovanni XXIII, Pacem in terris, n. 62.

[23] Paolo VI, Discorso all’ONU del 4 ottobre 1965.

[24] Giovanni Paolo II, Centesimus annus (1 maggio 1991), n. 52.

[25] Giovanni Paolo II, Discorso durante la Veglia di Preghiera della XV Giornata Mondiale della Gioventù, Tor Vergata (Roma), 19 agosto 2000, n. 6.

[26] Giorgio La Pira, Il sentiero di Isaia, Cultura Nuova Editrice, Firenze 19963, p. 266.

[27] Ivi, p. 268.

[28] Sant’Anselmo d’Aosta, Oratio 52.