Opinioni & Commenti

Giovanni Paolo e Benedetto: Cuba da un Papa all’altro

di Romanello Cantini

Da quando si è sparsa la voce che un Papa ha sconfitto il comunismo con i suoi pellegrinaggi in Polonia, ogni volta che un Papa visita Cuba ci si domanda questa volta chi vincerà in un derby considerato ovvio come quello fra il diavolo e l’acqua santa. Ma le visite di un Papa non sono mai spedizioni di conquista politica. E nei confronti del regime cubano i papi sembrano da tempo cercare una sua evoluzione più che una sua traumatica caduta. Già il viaggio a Cuba di papa Giovanni Paolo II nel 1998 non volle proporsi come uno scontro fra il bene e il male assoluto. Il regime cubano già agli inizi degli Anni Novanta aveva mostrato alcune timide aperture permettendo anche ad un credente di iscriversi al partito comunista. L’ateismo non era più considerato obbligatorio per il partito. Papa Wojtyla, se non assolveva il castrismo, gli trovava comunque non poche attenuanti.

Il Papa polacco non ha mai creduto alla propaganda castrista per cui tutta la miseria dell’isola dei Caraibi si spiega con l’embargo americano, ma si pronunciò apertamente contro il blocco economico dell’isola secondo la famosa formula: «Il mondo si apra a Cuba e Cuba si apra al mondo». Giovanni Paolo II non negava la mancanza di libertà del regime, ma, parlando con i giornalisti che l’accompagnavano nella visita, riconobbe che Castro aveva fatto qualcosa di buono soprattutto nel campo della sanità e dell’istruzione specialmente al confronto con il resto dell’America Latina. E aggiunse che secondo lui Dio non si sarebbe comportato male nemmeno con Ernesto Che Guevara perché «io sono certamente convinto che il suo desiderio era quello di servire i poveri».

A Cuba papa Wojtyla chiese soprattutto libertà religiosa, ma tuttavia presentandola in modo da farla apparire inseparabile dalla libertà politica. Per dire questa verità, senza compromettersi troppo in una disputa politica, il Papa di una nazione in cui la libertà si identificava con la fede cattolica nei suoi discorsi alle folle cubane rievocò più volte soprattutto le grandi figure della storia cubana dell’Ottocento per le quali la fede cattolica aveva alimentato la lotta per la libertà e l’indipendenza del paese e il loro cattolicesimo era stato insieme liberatore e rivoluzionario: il prete Felix Varela condannato a morte per aver lottato per la fine della schiavitù e l’indipendenza di Cuba; Carlo Manuel de Cespedes, il primo presidente di Cuba libera, che aveva cucito la prima bandiera cubana con la stoffa del baldacchino della chiesa di famiglia. Così il cattolicesimo democratico doveva apparire anima della nazione di fronte ad un grande nazionalista prima ancora che comunista.

Nemmeno Wojtyla ottenne tuttavia molto da Castro sul piano politico. Alcune settimane dopo il viaggio del papa Castro liberò buona parte dei 270 prigionieri politici della lista che il papa gli aveva fatto pervenire, ma ben presto molti loro di tornarono di nuovo in carcere. Da questo punto di vista lo stesso Joaquin Navarro, il direttore della sala stampa vaticana che aveva trattato i dettagli della visita, ammise anni dopo che Castro non aveva concesso quasi nulla. Meno magre furono però le concessioni sul piano della libertà religiosa. Fu reintrodotta la festività del Natale anche se il regime volle sottolineare che la vacanza era un grosso sacrificio per Cuba perché coincideva con il culmine della zafra, la raccolta della canna da zucchero. Fu permesso ai missionari stranieri di entrare a Cuba. Furono incrementati i seminari e consentito alle Brigittine di aprire un loro convento.

Da allora sono cresciuti i seminaristi e i sacerdoti in un paese che ancora ha un prete ogni cinquantamila abitanti. È stato costruito il nuovo seminario nazionale all’Avana. La Chiesa può disporre di alcune pubblicazioni. Seppure con molta parsimonia può apparire nei mezzi di comunicazione del paese.

Anche per merito di questo viaggio di Wojtyla oggi circa il sessanta per cento della popolazione di Cuba è ritornata alla sua religione tradizionale, mentre sulla scena sono apparsi protagonisti animati da un nuovo cattolicesimo radicale e battagliero che usa tecniche di resistenza passiva estrema di stampo gandhiano. Fra questi Orlando Zapata e Willmar Villar, morti in carcere per il loro sciopero della fame, Oscar Biscet che ha fatto dodici anni di carcere per denunciare l’uso largo che si fa nell’isola dell’aborto e dell’eutanasia; le «damas de blanco» che ogni domenica sfilano in processione dalla chiesa di Santa Rita con la foto di un loro caro arrestato. Fra questa coraggiosa e sparuta minoranza le cui tecniche di lotta sono talvolta discutibili e i cattolici tradizionali non esiste tuttavia ancora nella società civile una forza che sia capace di diventare protagonista del cambiamento come ad esempio i dieci milioni di iscritti a Solidarnosc in Polonia che potevano garantire il passaggio da un regime ad un altro.

Anche per questo papa Benedetto XVI ha deluso le attese delle punte più estreme per non scontrarsi con il regime anche a costo di subire la solita accusa che sempre si ripete di far prevalere la diplomazia di fronte alla profezia ed ha insistito soprattutto sulla necessità di continuare il cambiamento e di far crescere la libertà religiosa.

D’ altra parte Cuba è certamente alla fine di un’epoca, se non di un regime, che viene da sé. Sul viale del tramonto c’è Castro anche se forse non il castrismo. E in questo tratto di ciò che resta del suo giorno cercare di costringere anche il vecchio leader a fare la storia mentre sta già facendo le valigie per lasciarla può apparire perfino una sorta di violenza privata personale oltre che un investimento sull’effimero. Castro è probabilmente sempre lo stesso dal punto di vista ideologico, ma non lo è più dal punto di vista psicologico. Il leader maximo non porta più la tuta verde oliva del guerrigliero, ma la tuta da ginnastica del vecchio malato che non esce di casa. Quattordici anni fa, appena papa Wojtyla giunse all’aeroporto dell’Avana, lo costrinse ad ascoltare uno dei suoi  discorsi fiume in cui raccontò tutte le infinite sventure che l’America Latina aveva subito dal tempo di Cristoforo Colombo fino a quello di Bill Clinton. Questa volta Castro ha chiesto al Papa solo di mandargli dei libri. Forse era una domanda resa reticente dall’orgoglio del leader e dall’imbarazzo della divagazione, però non molto diversa da quella di Mitterand che negli ultimi mesi della sua vita mandava a chiamare all’Eliseo Jean Guitton perché gli parlasse di Dio.