Toscana
Il Concilio ha 40 anni
Fin da quell’annuncio il concilio ecumenico, voluto da papa Giovanni insieme alla celebrazione di un sinodo della diocesi di Roma e alla riforma del Codice di Diritto canonico, come elementi caratterizzanti il proprio pontificato, era diventato oggetto di interesse non solo per la Chiesa cattolica, ma per i cristiani non-cattolici, per i credenti di altre religioni e per la società civile, anche quella più estranea a una riflessione religiosa. Questo interesse nasceva essenzialmente dalle speranze suscitate dal pontificato di Giovanni XXIII che, fin dai suoi primi gesti, aveva mostrato di voler percorrere la strada del dialogo all’interno e all’esterno della Chiesa, alla ricerca di ciò che univa gli uomini, pur riaffermardo con forza e con chiarezza la dottrina della Chiesa cattolica romana.
Proprio a papa Paolo VI, che aveva preso parte alla I sessione del concilio in qualità di arcivescovo di Milano, si deve la straordinaria opera che ha condotto alla promulgazione dei sedici documenti, con il raggiungimento della quasi-unamità su ognuno di essi; da parte di Paolo VI non si è trattato semplicemente di lavorare per raggiungere un compromesso in nome dell’unità della Chiesa, quanto di procedere a una sintesi, pienamente coerente con la tradizione della Chiesa, in linea con la pluralità di posizioni emerse durante i lavori del Vaticano II, anche fuori dall’aula conciliare, dove si svolgeva il dibattito pubblico tra i padri conciliari, o fuori dalle aule delle commissioni, dove avveniva il confronto tra teologi.
Sarebbe però riduttivo immaginare che la ricchezza del Vaticano II possa esaurirsi nella conoscenza dei documenti finali, che pure rappresentano una pietra miliare sempre attuale nella vita della Chiesa, e nella ricostruzione del dibattito redazionale degli schemi, poiché il concilio Vaticano II costituì un evento della storia del XX secolo proprio perché coinvolse non solo coloro che erano chiamati più direttamente alla redazione e all’approvazione dei documenti, ma tutti coloro che furono in grado di seguire un confronto nel quale l’ansia di aggiornamento di Giovanni XXIII venne arricchendosi delle istanze per un rinnovamento condotto da Paolo VI.
Indubbiamente nella prospettiva di una sempre migliore conoscenza del corpus dei documenti conciliari, attraverso una lettura complessiva, che tenga conto del processo redazionale e del valore dogmatico-pastorale, si avverte l’assenza di una collana che favorisca, soprattutto in coloro che non hanno vissuto la stagione del Vaticano II, la comprensione della complessità dei tempi e dei temi, che si ritrovano nei documenti approvati. Si tratta di una lacuna non-piccola, che sarebbe opportuno colmare con l’avvio di un progetto per la realizzazione di una collana di commenti a testi, alla luce di quanto in questi anni si è venuto editando e pubblicando, non semplicemente per aggiornare le collane di commento ai testi, pubblicate nei primi anni del post-concilio, quanto per offrire alla Chiesa incamminata nel III millennio uno strumento per conoscere e per riflettere sul concilio Vaticano II, nel momento in cui per ragioni anagrafiche sta venendo meno la generazione di coloro che votarono quei documenti.
La collana di commenti ai documenti consentirebbe anche di abbandonare definitivamente la stagione della memorialistica, dal sapore spesso ideologico, che ha schiacciato la complessità del Vaticano II in una logica, puramente politica, di contrapposizione di schieramenti. Questa collana, pensata per l’Italia e non semplicemente tradotta per l’Italia, promoverebbe così un processo di reale conoscenza del Vaticano II da punto di vista storico, dogmatico e pastorale, nella prospettiva di alimentare proprio a partire dalla memoria storica del concilio Vaticano II il cammino verso la costruzione dell’unità visibile della Chiesa, secondo le parole di Benedetto XVI fin dal giorno della sua elezione.
Cosa ricorda di quegli anni?
«Quello che mi ha sempre impressionato è il fatto che, eccetto il documento sulla riforma liturgica approvato con qualche voto contrario, sugli altri ci fu sempre l’unanimità, o quasi. Su più di duemila tra vescovi e cardinali, questo è sicuramente il segno che lo Spirito Santo era al lavoro. E oggi sono contento di sentire il Papa citare continuamente il Concilio, fare riferimento ai documenti, invitare a studiarli».
Se dovesse scegliere uno dei frutti del Concilio che ne sintetizzi il valore, cosa sceglierebbe?
«Un emblema dei cambiamenti portati dal Concilio è proprio la figura del Papa. Prima era un re, circondato dalla corte pontificia. Adesso si presenta in modo semplice, come un apostolo, in mezzo alla gente».
A proposito di Papi, il Concilio ne ha avuti due…
«Per indire il Concilio ci voleva il coraggio di Giovanni XXIII, che dovette superare molte resistenze: direi quasi l’incoscienza di chi non si preoccupa di quali possono essere le conseguenze del suo gesto. Per portarlo a termine, ci voleva la sapienza di Paolo VI. Il lavoro di mediazione a volte non fu semplice, alcuni documenti furono fatti e rifatti diverse volte come quello sulla Bibbia, la Dei Verbum, sul quale giocò un ruolo determinante l’arcivescovo di Firenze, il cardinale Florit».
C’è un episodio che le è rimasto nel cuore?
«L’ultimo giorno, l’8 dicembre del 1965, quando a chiusura del Concilio i padri intonarono un antico canto conciliare: Haec est fides nostra, haec est fides ecclesiae. Questa è la nostra fede, questa è la fede della Chiesa. Come a dire che, dal confronto tra tutte le Chiese particolari, alla fine era emerso il credo della Chiesa universale».