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Terra Santa: Pizzaballa, “accordi di pace falliti perché teorici”

Lo ha detto questa mattina il patriarca latino di Gerusalemme nella sua lectio magistralis intitolata “Caratteri e criteri per una pastorale della pace” tenuta alla Pontificia Università Lateranense, a Roma, nell’ambito del corso di “Teologia della pace”.

“La pace ha bisogno della testimonianza di gesti chiari e forti da parte di tutti i credenti, ma ha anche bisogno di essere annunciata e difesa da parole altrettante chiare. Non si può tacere di fronte alle ingiustizie o invitare al quieto vivere e al disimpegno. L’opzione preferenziale per i poveri e i deboli, però, non fa di noi un partito politico”. Lo ha detto questa mattina il patriarca latino di Gerusalemme, card. Pierbattista Pizzaballa, nella sua lectio magistralis intitolata “Caratteri e criteri per una pastorale della pace” tenuta alla Pontificia Università Lateranense, a Roma, nell’ambito del corso di “Teologia della pace”. Partendo dalla sua esperienza di “pastore”, il patriarca ha indicato alcuni criteri sui quali la Chiesa di Terra Santa dovrebbe fondare la sua azione di pace, in quello specifico contesto, oggi al centro dell’attenzione di tutto il mondo e fonte di divisione anche in molte altre parti del mondo. “Prendere posizione, come spesso ci è chiesto – ha spiegato il card. Pizzaballa -, non può significare diventare parte di uno scontro, ma deve sempre tradursi in parole e azioni a favore di quanti soffrono e gemono e non in invettive e condanne contro qualcuno”. “Il nostro stare in Terra Santa come credenti – ha ricordato – non può rinchiudersi in intimismo devozionale, né può limitarsi solamente al servizio della carità per i più poveri, ma è anche parresìa, non può, cioè, esimersi dall’esprimere, nei modi propri di ciascuna esperienza religiosa, un giudizio sul mondo e sulle sue dinamiche. Sappiamo bene come in Medio Oriente la politica avvolga la vita ordinaria in tutti i suoi aspetti. Tutto diventa politica e ciò interroga seriamente tutte le nostre istituzioni religiose e i nostri fedeli, i quali attendono da noi una parola di speranza, di consolazione, ma anche di verità”. Da qui il bisogno di “un discernimento davvero difficile e mai raggiunto una volta per tutte, che richiede la capacità di ascolto di tutte le voci, ma anche di interpretare criticamente, e quindi anche profeticamente, il presente”. “Siamo chiamati anche noi credenti – ha affermato – ad amare e servire la polis e condividere con tutti la preoccupazione e l’azione per il bene comune, nell’interesse generale di tutti e specialmente dei poveri, alzando sempre la voce per difendere i diritti di Dio e dell’uomo, ma senza entrare in logiche di competizione e di divisione”.

“Le diverse fedi, se intese nella loro genuinità e nella loro vocazione profonda, sono portatrici di risorse di riconciliazione e di pacificazione e non rappresentano quasi mai la sola o la principale causa scatenante delle incomprensioni e dei conflitti, né costituiscono di per sé un fattore di rischio in questo senso. Ma se diventano funzionali alla lotta politica, come spesso accade in Terra Santa, le religioni diventano come benzina gettata sul fuoco”. È il monito lanciato dal card. Pizzaballa nella sua lectio magistralis. “Il dialogo interreligioso ha prodotto documenti molto belli sulla fraternità umana, sull’essere tutti figli di Dio, sulla necessità di lavorare insieme per il rispetto dei diritti della persona”, eppure, ha riconosciuto il porporato, “nell’attuale contesto di guerra, tutto questo in Terra Santa sembra oggi essere lettera morta”. Per Pizzaballa oggi “vi è un grande assente in questa guerra: la parola dei leader religiosi. Con poche eccezioni, non si sono sentite in questi mesi da parte della leadership religiosa discorsi, riflessioni, preghiere diverse da qualsiasi altro leader politico o sociale”. La conseguenza è che “rapporti di carattere interreligioso che sembravano consolidati sembrano oggi spazzati via da un pericoloso sentimento di sfiducia. Ciascuno si sente tradito dall’altro, non compreso, non difeso, non sostenuto. Questa guerra – ha rimarcato il card. Pizzaballa – è uno spartiacque nel dialogo interreligioso, che non potrà essere più come prima, almeno tra cristiani, musulmani ed ebrei”. “Il mondo ebraico – ha spiegato – non si è sentito sostenuto da parte dei cristiani e lo ha espresso in maniera chiara. I cristiani a loro volta, divisi come sempre su tutto, incapaci di una parola comune, si sono distinti se non divisi sul sostegno ad una parte o all’altra, oppure incerti e disorientati. I musulmani si sentono attaccati e ritenuti conniventi con gli eccidi commessi il 7 ottobre. Insomma, dopo anni di dialogo interreligioso, ci siamo ritrovati a non intenderci l’un l’altro”. Ma il dialogo non può fermarsi: “Partendo da questa esperienza, dovremo ripartire, coscienti che le religioni hanno un ruolo centrale anche nell’orientare e che il dialogo tra noi dovrà forse fare un passaggio importante e partire dalle attuali incomprensioni, dalle nostre differenze, dalle nostre ferite. Non potrà essere più un dialogo solo tra appartenenti alla cultura occidentale, come è stato fino ad oggi, ma dovrà tenere in conto le varie sensibilità, i vari approcci culturali non solo europei, ma innanzitutto locali. È molto più difficile, ma da lì si dovrà ripartire. E si dovrà farlo – ha concluso – non per bisogno o necessità, ma per amore”.

“Tutti gli accordi di pace in Terra Santa, finora, sono di fatto falliti, perché erano spesso accordi teorici, che presumevano di risolvere anni di tragedie senza tenere in considerazione l’enorme carico di ferite, dolore, rancore, rabbia che ancora covava e che in questi mesi è esploso in maniera estremamente violenta”. Ne è convinto il card. Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, che oggi, all’Università Lateranense, ha tenuto una lectio magistralis intitolata “Caratteri e criteri per una pastorale della pace” nell’ambito del corso di “Teologia della pace”. Secondo il patriarca “Per guardare al futuro con speranza e in pace, è necessario fare un percorso di purificazione della memoria. Le ferite, se non sono curate, creano un atteggiamento di vittimismo e di rabbia, che rendono difficile, se non impossibile, la riconciliazione. Finché da parte di tutti non vi sarà una purificazione della comune memoria, fino a che non ci sarà un riconoscimento del male reciprocamente commesso e subìto, fino a che non vi sarà una rilettura delle proprie relazioni storiche, le ferite del passato continueranno ad essere un bagaglio da portare sulle proprie spalle e un criterio di lettura delle relazioni reciproche”. Da qui deriva la necessità di “un’educazione umana al perdono, una formazione culturale che consenta all’uomo di guardare gli eventi non esclusivamente dalla prospettiva delle proprie ferite, che hanno sempre un orizzonte limitato e chiuso, e lo aiuti ad interpretare gli eventi, personali e collettivi, con uno sguardo verso il futuro, che tenga in considerazione anche il bene della realtà umana e sociale circostante, il bisogno di riattivare dinamiche di vita”. Al tempo stesso non si può parlare di perdono, “senza parlare di verità e giustizia: da decenni in Terra Santa sussiste l’occupazione israeliana dei territori della Cisgiordania, con tutte le sue drammatiche conseguenze sulla vita dei palestinesi e anche degli israeliani. La prima conseguenza e la più visibile di questa situazione politica è la condizione di ingiustizia, di non riconoscimento di diritti basilari, di sofferenza nella quale vive la popolazione palestinese in Cisgiordania. È un’oggettiva situazione di ingiustizia”. Il perdono, in conclusione, “da solo non può costruire la pace. Verità e giustizia, da sole, non possono costruire la pace. Affermare il bisogno di verità e di giustizia è attività sacrosanta, ma, se queste sono disgiunte da un desiderio di perdono, lasciano il proprio avversario sul banco degli imputati, mettendolo di fronte alle proprie responsabilità, ma senza superarle, senza offrire prospettive di uscita. In definitiva diventa recriminazione. Tutto ciò può anzi provocare una reazione ancora più aggressiva di opposizione”. È necessario, dunque, che “la pastorale ecclesiale di pace sappia porre questi tre elementi in continuo, difficile, doloroso, complesso, lacerante, faticoso dialogo tra loro”. Spesso, ha concluso Pizzaballa, “in Terra Santa si tratta di sapere attendere. Non sempre il cuore delle persone e delle comunità è pronto e libero per parlare di perdono. Il dolore è ancora troppo forte. Spesso è più facile avere a che fare con rabbia più che con desiderio di perdono. Bisogna, perciò, sapere attendere, ma allo stesso tempo proporre senza stancarsi la via cristiana della pace”.