Opinioni & Commenti

Il «prendersi cura» dei più fragili sia l’indice della nostra civiltà

di Giuseppe Anzani

La vicenda di Eluana, così dolorosa, così commovente, dopo i giorni immersi in infinite parole sul limitare della morte, e dopo i giorni del silenzio e del pianto seguiti alla sua sepoltura, ci invoglia ora a cercare in modo meditativo il senso dell’accaduto, di fronte al suo epilogo essenziale, che per alcuni è consegna tardiva a un sepolcro invocato, per altri il passaggio alla morte provocato anzitempo. Per chi crede, infine, è per Eluana in ogni caso l’approdo alle braccia del Padre autore della Vita.

Questa vicenda, rimeditata in silenzio, ci insegna alcune cose. La prima è che la vita umana, la vita di ogni persona, è intrecciata alle «cure» che altri le danno. Le cure sono il linguaggio dell’amore che sostenta la vita. L’emblema è il bambino che riposa sul seno materno che lo nutre; all’altra polarità sta la debolezza del vecchio divenuto dipendente; nel mezzo ci sono tutte le fragilità, l’handicap, la malattia, la disabilità. Tutto sta nella vita, nell’abbraccio della vita in gioia e in dolore, se ci si prende cura. Senza cura è la morte.

Cura è parola più grande che medicina. Eluana è vissuta per la cura delle suore Misericordine di Lecco che l’hanno amata come una figlia. Tolta alle loro braccia è stata consegnata alla morte e se n’è andata in pochi giorni. Il primo guasto che annotiamo in chi ha voluto ciò è la riduzione del concetto di «cura» alla medicina rifiutabile. E contestuale è l’aver passato per medicina l’acqua e il nutrimento perché introdotto col sondino. No, dare nutrimento, da che mondo è mondo, è il gesto più concreto e simbolico che esista, fra i viventi, per esprimere, far capire e comunicare la «cura» che l’uno si prende dell’altro. Come la madre, come il padre. C’è una precisa relazione fra il soccorso della disabilità e il sentimento umano di «venerazione» per la persona del vivente. L’accaduta frattura ci lascia ora fortemente percossi, pensosi.

Qualcosa ci pare di intendere anche su leggi e tribunali e giustizia nei dintorni della vita e della morte. Perché anche qui c’è uno scandalo, un inciampo. La richiesta di non dare più acqua e nutrimento a Eluana fu avanzata da suo padre come tutore nel 1999. Il tribunale disse di no, che non si poteva; e la Corte d’appello confermò che non si poteva. E il processo finì così, si giudicò che non si poteva. E le suore di Lecco continuarono ad accudirla, a nutrirla, lavarla, muoverla, alzarla e portarla all’aria, carezzarla, farla vivere. Non per il «giudicato», ma per amore. Nel 2003 il tutore tornò daccapo a chiedere di togliere il sondino; e il tribunale spiegò un’altra volta di no, che non si poteva, e la Corte d’appello ribadì di no, e poi la Corte di cassazione disse persino che non si poteva neanche parlarne, se Eluana non avesse avuto un rappresentante, diverso dal padre tutore che era in potenziale conflitto di interesse. E finì così anche questo giudizio di tre gradi. Giudicato? Eluana visse, dentro le cure, dentro l’amore. Ma ancora il padre tutore ripartì per la terza volta, nel 2006; e ancora il tribunale disse di no, e la Corte d’appello disse di no, che non si poteva; ma la cassazione rimandò indietro il caso dicendo che forse si poteva, se era Eluana a volere così e se lo stato era irreversibile, e che per capire se Eluana voleva così bisognava desumerlo dal suo stile di vita, dalle sue convinzioni, dalle sue confidenze. Sicché la Corte di Milano, sentito ancora quel che diceva il padre tutore, finì per dire di sì, e il resto lo sappiamo. Giudicato? Quanti errori in quegli atti giudiziari, dicono i commenti critici che riempiono biblioteche. Ma non è questo il punto.

Il punto guasto è che si è fatto passare il tentativo di salvare Eluana da morte come un attacco al «giudicato», o alla «esecuzione di una sentenza», o persino alla separazione dei poteri, e non era così. Lo dico da giudice, non hanno avuto neanche una finta di pudore sul fatto che il tipo di ordinanza (non sentenza) finale di «sì» e il tipo dei precedenti di «no» (finali nei rispettivi processi) non erano diversi. Non si fa «giudicato» in questa materia e in questa procedura di «giurisdizione volontaria». Eluana poteva essere salvata fino all’ultimo. Restano ora sulla scena i problemi del «testamento biologico». La possibilità, da alcuni auspicata, da altri avversata, è ora spinta verso una «opportunità» che vuole discernimento, dentro il rispetto della libertà e dentro l’orizzonte della doverosa solidarietà. Dobbiamo esser fermi che le dichiarazioni anticipate di trattamento mai potrebbero diventare una prenotazione di eutanasia, poichè l’eutanasia non ha spazio nella nostra civiltà giuridica e nella nostra costituzione. Per il resto, rispettato il principio del consenso informato alle terapie mediche, rifiutato l’accanimento terapeutico, l’impegno di «prendersi cura» di ogni persona umana in condizione di fragilità e insufficienza sarà la linea di confine: o l’indice della civiltà dell’amore o il segnale della sua disperata assenza.