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Il tragico ultimo «ciak» di Mario Monicelli

DI FRANCESCO MININNI

La statura artistica di Mario Monicelli è raccontata da due Leoni d’Oro a Venezia, uno nel 1959 per «La grande guerra», uno nel 1991 alla carriera. Da tre premi come miglior regista al Festival di Berlino, uno nel 1957 per «Padri e figli», uno nel 1976 per «Caro Michele», uno nel 1982 per «Il marchese del Grillo». Da cinque David di Donatello, uno nel 1976 per «Amici miei», uno nel 1977 per «Un borghese piccolo piccolo», uno nel 1986 per «Speriamo che sia femmina», uno nel 1990 per «Il male oscuro», uno speciale nel 2005.

Da cinque Nastri d’argento, tre per le sceneggiature de «I soliti ignoti» (1959), «Un borghese piccolo piccolo» (1977) e «Il marchese del Grillo» (1982), due per sceneggiatura e regia di «Speriamo che sia femmina» (1986). Da tre nomination all’Oscar (che però non vinse mai) per «La grande guerra» (1959), «I compagni» (1963) e «La ragazza con la pistola» (1968).

Il suo acume e la sua lungimiranza sono testimoniati dall’aver trasformato Vittorio Gassman e Monica Vitti da attori drammatici in talenti comici, contro ogni previsione e ogni possibile ostacolo produttivo. La sua interiore giovinezza… beh, su quella ci sarebbe molto da discutere. I suoi film, in fondo, hanno sempre raccontato vicende di sconfitte, di povera gente che annaspa per rimanere a galla, di armate Brancaleone che mai raggiungeranno la gloria, di orizzonti in cui era molto difficile individuare il segno della speranza, improntate a un cinismo e a un disincanto che evocavano sempre una fine, mai un principio. In questo senso «Amici miei», che parte dal progetto incompiuto di un altro grande pessimista come Pietro Germi, finisce per rappresentarlo alla perfezione: malinconico, poco incline ai legami sentimentali a lunga scadenza, ancora legato alla goliardia della giovinezza che diventa un illusorio baluardo contro lo scorrere del tempo, pronto a irridere tutto e tutti con scherzi non necessariamente innocenti, pervaso di uno spiritaccio toscano fatto di irriverenza e crudeltà. Ma soprattutto, proprio come il Perozzi, solo davanti alla morte.

Monicelli, novantacinquenne, mai sposato, qualche compagna, due figlie e qualche nipote, aveva dichiarato alcune cose molto interessanti sulla propria persona. Amava vivere da solo, non sentiva la lontananza di figli e nipoti, aveva pianto l’ultima volta alla morte del padre Tomaso, suicida nel 1946. Sono tanti, ma proprio tanti sessantaquattro anni senza una lacrima. Sessantaquattro anni da un suicidio all’altro, con una illuminante dichiarazione sulla scelta della solitudine: «Vivo da solo per rimanere vivo il più a lungo possibile. L’amore delle donne, parenti, figlie, mogli, amanti, è molto pericoloso. La donna è infermiera nell’animo e, se ha vicino un vecchio, è sempre pronta ad interpretare ogni suo desiderio, a correre a portargli quello di cui ha bisogno. Così piano piano questo vecchio non fa più niente, rimane in poltrona, non si muove più e diventa un vecchio rincoglionito. Se invece il vecchio è costretto a farsi le cose da solo, rifarsi il letto, uscire, accendere dei fornelli, qualche volta bruciarsi, va avanti dieci anni di più».

Chissà perché, ma ci viene da pensare che questa volta il maestro si fosse sbagliato. E ora, magari ragionando col Perozzi della supercazzola, di certo lo sa anche lui.

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